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Piccola Posta dall'ucraina

Un viaggio di storie con il capitano Glikman, salpando da Odessa

Adriano Sofri

Lo "Yacht club del Mar Nero" è un parcheggio di barche che non possono mollare gli ormeggi perché il mare è minato. Tra la gente che non abbandona la propria imbarcazione c'è un ottantenne innamorato della sua barca a vela

Odessa, dal nostro inviato. Il New York Times di ieri, venerdì 19, aveva un formidabile reportage da Odessa di Roger Cohen, con le fotografie di Laetitia Vancon. “Odessa è ribelle. E’ anche l’obiettivo finale di Putin”. Circa 35 mila battute l’articolo, e 43 fotografie: non un sogno ma un miraggio, per il giornalismo dei poveri. Di Cohen, 66 anni, si riporta un giudizio professionale risalente al 2007, quando ne aveva 51: “Il giornalismo è affare di persone giovani... Quando il telefono chiama nel cuore della notte e avete 25 anni e vi chiedono di andare a Beirut, è il massimo. Un po’ meno se succede quando ne avete 50”.

 

Bene, ho letto, sospirato, e poi sono andato, con calma, al mare. Una delle rive e delle spiagge di Odessa si chiama Otrada e ospita lo “Yacht Club del Mar Nero”. Come potete immaginare, col mare minato e chiuso, il vasto spazio è un parcheggio di motoscafi, velieri, catamarani, yacht e imbarcazioni di ogni genere tirate in secco, issate su tralicci di legno, protette da teli alcune, esposte alle intemperie altre. Due o tre proprietari ci si sono arrampicati sopra, si sono messi in costume, e fanno colazione in coperta per non sprecare del tutto l’estate e lo scintillio del mare deserto se non di cormorani stesi ad asciugarsi sulla scogliera. C’è una sola coppia. Il Club ha però tutti i giorni, dalla mattina al primo pomeriggio, con qualunque tempo – anche a Odessa da Ferragosto gli acquazzoni improvvisi sono arrivati – il suo abitante più illustre: il capitano Viktor Glikman. Il capitano Glikman ha 82 anni – “sei un ragazzo”, mi dice – è seduto sotto una tenda col suo giovane socio Igor Borodin, ha una magnifica faccia piena di capelli e baffi candidi come sale. E’ grande e anzi grandioso, è a torso nudo ma, per accompagnarci a visitare il porto, si infila un grosso papillon di seta verde sul collo nudo e una camicia chiara. 

Glikman ha avuto un padre ebreo di Odessa e una madre polacca. E’ nato a Odessa, ha studiato scienza navale all’università, ha imparato l’astronomia degli antichi, l’astrolabio e il teodolite, quadranti e sestanti e ottanti, l’orientamento a cielo stellato e coperto, i venti e le correnti, a leggere e disegnare portolani, e intanto andava per mare su ogni genere di imbarcazione. Anche ora, quando esce – da quasi un anno non può farlo – Glikman ride dell’equipaggio che non solleva mai la testa dai telefoni e dai congegni satellitari: conosce a memoria l’aria che tira e la direzione da tenere. Mi mostra a dito dove sono i posti in cui andremo insieme, appena possibile – “l’anno prossimo”, l’ebraismo è sempre una buona risorsa. Mariupol, in fondo a sinistra, l’isola di Berezan, l’isola di Zminiiyj, quella che noi chiamiamo dei Serpenti, e Istanbul, 343 miglia – mi pare. Del resto, di fronte a noi, un palo piantato sul molo indica tutte le distanze della terra in miglia marine, con una cornacchia appollaiata sulla cima. 

Il capitano ha una figlia grande che vive in Europa, una moglie da cui è affettuosamente separato, una compagna incontrata nella comunità ebraica. Oltre a questi principali, ha un grande amore e me lo mostra, un pezzo alla volta. Anzi due: i grandi alberi maestri di legno verniciato sdraiati al sole su blocchi di legno. E poi la barca tutta intera: Carolina. Apparteneva alla flotta di un armatore che subì un disastroso naufragio e si ritirò, una ventina di anni fa, e cedette, a metà fra un regalo e un prezzo di saldo, la barca che Glikman più amava: era malridotta, ora è lustra e slanciata, chiglia di rame e fasciame di legno, pronta come una sposa e come lui, qualche idiozia di burocrati ha rinviato la cerimonia. L’ho rifatta tutta io, con queste mani, dice, e le alza orgoglioso. Con le sue mani ha cucito insieme anche la gran copertura verde che la protegge. 

Il capitano Glikman è stato l’amico dei grandi personaggi che hanno fatto la storia di Odessa, artisti, scrittori, e ha scritto e pubblicato anche lui libri di memorie proprie e loro. Quando nomina i porti innumerevoli della sua vita si capisce che ha una passione speciale per Rotterdam. Vorrebbe che un suo libro uscisse in olandese: li avviso. Uno, pubblicato da Anna Golubovskaya, la famosa fotografa che mi ha accompagnato qua, si intitola più o meno “Come essere un ebreo nell’aristocrazia marittima di Odessa”, ed è uscito nel 2011. Uno dei suoi racconti riguarda Oleg Sohanevich, scultore astrattista in metallo, nato a Tul’cyn, Ucraina, nel 1935. “Il 7 agosto 1967, Oleg Sohanevich e Gennady Gavrilov, entrambi rappresentanti della bohème artistica, sulla nave da crociera Russia, in navigazione da Yalta a Novorossijsk, si gettarono nel Mar Nero. Gonfiarono un gommone a due posti che avevano comprato e sperarono di raggiungere la costa turca con pochissimo cibo e acqua. Ci arrivarono davvero il decimo giorno della fuga. In Turchia nessuno voleva crederci. Ottennero asilo politico negli Stati Uniti, dove trascorsero il resto dei loro giorni. Le loro vite presero strade diverse, perché nell’ambita America i fuggitivi litigarono a morte e smisero ogni rapporto. Gavrilov morì a New York a metà degli anni Novanta, malato e indigente. Sohanevich gli sopravvisse di più di vent’anni, e morì a 82, di un cancro al fegato dovuto all’alcolismo. Su come gli venne l’idea di fuggire dall’Urss in gommone e su come avvenne la fuga, scrisse un racconto, “Only the Impossible”.

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