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piccola posta

Il primo e ultimo uomo sulla faccia della terra

Adriano Sofri

Avrebbe ambizioni e desideri? Lascerebbe una traccia di sé? Potrebbe alla fine anche solo pensare? Come sostiene il filosofo Maurizio Ferraris, bisogna essere almeno in due. Così mandiamo segnali anche nel cosmo – ammesso che gli alieni sappiano tradurre

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Sulla scia di Nietzsche e Camurri, ho letto una risposta di Maurizio Ferraris ai critici del suo “Documentalità. Perché è necessario lasciare tracce” (2009), l’argomentazione secondo cui gli oggetti sociali consistono di tracce, di atti scritti, iscritti, o registrati, di firme – di documenti… Alla boutade “Non esistono fatti, solo interpretazioni” e ai suoi epigoni, il neorealista Ferraris obietta che oggetti naturali e ideali esistono solidamente, indipendenti da noi che li pensiamo, mentre sono gli oggetti sociali a non esistere se non nel testo (“conti, archivi, borse, listini, giornali, siti web, telefonini…”).

 

Mi scuso del miserabile riassunto: in Wikipedia ne trovate uno molto migliore. Volevo solo copiare questo brano di Ferraris: “Immaginiamo un Arcirobinson che fosse il primo e l’ultimo uomo sulla faccia della terra. Potrebbe davvero essere roso dall’ambizione di diventare contrammiraglio, miliardario o poeta di corte? Certamente no, così come non potrebbe sensatamente aspirare a seguire le mode, oppure a collezionare figurine dei calciatori o nature morte. E se, per ipotesi, cercasse di fabbricarsi un documento, si impegnerebbe in una impresa impossibile, perché per fare un documento bisogna essere almeno in due, chi scrive e chi legge. In realtà, il nostro Arcirobinson non avrebbe nemmeno un linguaggio, e difficilmente si potrebbe dire che ‘pensa’ nel senso corrente del termine”. 

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L’ipotesi del “primo e ultimo uomo sulla faccia della terra” mi ha fatto immaginare l’intero genere umano, in solido, come “il primo e l’ultimo sulla faccia del cosmo”: noi mandiamo nello spazio, come messaggi in una bottiglia, messaggi ed esattamente documenti. “Questo è un regalo di un piccolo e distante pianeta, un frammento dei nostri suoni, della nostra scienza, delle nostre immagini, della nostra musica, dei nostri pensieri e sentimenti. Stiamo cercando di sopravvivere ai nostri tempi, così da poter vivere fino ai vostri” (Jimmy Carter per il Voyager Golden Record, il disco per grammofono eventuale nel luogo di arrivo, fra 40.000 anni). Li abbiamo mandati, suoni di onde e vento, saluti in 55 lingue, canti di uccelli e di balene, il secondo concerto brandeburghese e la canzone delle donne pigmee, una pagina dei Principia di Newton e la foto di un’acquirente in un supermercato, e la dedica iscritta sul disco: “To the makers of music – all worlds, all times”.

 

Alla ricerca di altri, che non ci facciano restare i primi e gli ultimi. Che ci facciano essere, nell’universo, almeno in due. E confidiamo sulla traducibilità: che gli alieni non siano alieni al punto di non saperli tradurre. 

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