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piccola posta

L'inno di Mameli, che commuoveva anche gli internazionalisti

Adriano Sofri

Il militante sessantottino Sergio Gattai lo confessò ai compagni di lotta e furono tutti d'accordo. E non importa la cattiva retorica: c'è in tutti gli inni nazionali e non ha senso prenderli alla lettera

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L’inno di Mameli ha passato tanti di quei guai che lo si può considerare al sicuro. Composto nel 1847, è diventato definitivamente inno nazionale solo nel 2017. La sua cattiva retorica è secondaria, gli inni nazionali sono retorici e non ha senso prenderli alla lettera. Come i dieci comandamenti, del resto, che hanno quel pensiero fisso della donna d’altri. Caso mai, dell’inno di Mameli il rischio vero è sempre stato nel trasloco di una o, da stringiamci a coorte a stringiamoci a corte, che basta a precipitare un manipolo di combattenti romano-repubblicani in un popolo di cortigiani. Certo, sostiene che “siam pronti alla morte”, ma l’autore del testo, Goffredo Mameli, giacobino, repubblicano, mazziniano, non aveva ancora vent’anni quando lo scrisse, e ne aveva ventuno quando morì davvero battendosi per la difesa della Repubblica romana.

 

Il generale Figliuolo lo ha citato, ma la cosa non depone a suo sfavore, né a sfavore dell’inno. Giuseppe Garibaldi, un generale in divisa (camicia rossa da operaio del mattatoio di Montevideo) abbandonò Roma nel 1849, dopo la difesa gloriosa, ritto, a cavallo, mentre il sol dileguava, canticchiando e fischiettando l’inno di Mameli e Novaro. E anche i nostri calciatori, oriundi compresi, anzi di più, si mettono una mano sul cuore e si ricantano pronti alla morte, anche loro in divisa, azzurra. Correva il 1968 quando il giovane Sergio Gattai, pisano, militante rigorosamente internazionalista, prese in disparte i più fidati dei suoi compagni di lotta e, rosso in viso, confessò: “Io però, quando alle partite della Nazionale sento cantare l’inno di Mameli, mi viene la pelle d’oca”: ottenne piena e solidale comprensione. A lui sia dedicata questa piccola posta. 

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