Foto Ansa 

piccola posta

La conta impari. Quanto sono preziosi per noi i bambini palestinesi?

Adriano Sofri

La sproporzione tra le vittime dei due schieramenti serve a Israele come conferma della superiorità e ad Hamas per ostentare le proprie vittime. C'è un'inflazione di bambini palestinesi morti nella nostra coscienza che ci rende assuefatti e indifferenti

Vorrei riproporre un problema, a voi e anche a me. Per non perdere tempo, invito a dare per votate le premesse archeologiche, il 1967 e il 1948 e il 70 d.C. e così indietro. E l’opinione su Hamas e Jihad, armate al soldo di despoti islamisti per una volta accomunati, sunniti e sciiti, bramosi di distruggere Israele e tutti gli ebrei della terra. E il diritto dello Stato di Israele, altra cosa dai suoi governi. Il problema è: quanto valgono per noi i bambini palestinesi?

 

E’ un dettaglio dello slogan che negli Stati Uniti è stato appena adattato: Palestinian Lives Matter. Noi ci facciamo un’idea molto diversa di israeliani e palestinesi. Israele, diciamo, è un pezzo d’Europa piantato in mezzo al mondo arabo, e circondato. I palestinesi, soprattutto quelli fuori da Israele, sono una parte di quel mondo arabo, delle più reiette. A Tel Aviv si sta come a Milano. A Gaza si soffoca, comunque si reagisca, con simpatia o con rigetto. 

 

Tempo fa Internazionale pubblicava una rubrichetta settimanale di poche righe, intitolata “Israeliani e palestinesi”, che aggiornava il numero dei morti dell’una e dell’altra parte, a partire dalla seconda Intifada, dal settembre del 2000. Piano piano, ma inesorabilmente, la sproporzione cresceva, e se i morti israeliani erano sempre stati meno numerosi, a un certo punto arrivarono a essere solo la metà di quelli palestinesi, e già questo provocava un turbamento complicato; poi il divario continuò ad accrescersi, finché, ancora prima di un attacco a Gaza che fece impennare le cifre, il totale dei morti palestinesi superava di più di cinque volte quello dei morti israeliani. Complicato, il turbamento: perché si è involontariamente indotti, come di fronte a ogni sproporzione eccessiva, a desiderare che la forbice si riduca, ciò che può avvenire riducendo le morti degli uni o moltiplicando quelle degli altri… Poi Internazionale interruppe la rubrica.

 

Il conto delle vittime nella perpetua guerra di vicinato è costantemente sproporzionato, in un modo quasi consensuale. Israele ne ricava la conferma della superiorità militare, da cui fa dipendere la propria sopravvivenza. I capi palestinesi ostentano le proprie vittime a denunciare viltà e cinismo degli “ebrei” e dei loro protettori. Questa doppia partita delle morti è un reciproco modus vivendi, per così dire, e vincendi, a carico dei rispettivi civili. Israele vince le battaglie, colpisce duro e rinvia di qualche anno la prossima guerra – dopo che colpì duro nel 2014 sono passati 7 anni. Hamas si aggiudica una vittoria di reputazione coi fagottini bianchi esposti alla vista del mondo.

 

Allora: quanto sono preziosi per noi i bambini palestinesi? Quel cambio così ineguale – per esempio, 58 a 2, se non sbaglio, negli scorsi giorni, e si vorrebbe dire soltanto: 60 bambini – non misura anche la differenza nella nostra scala dei valori? C’è un razzismo involontario in noi. E’ il riflesso di quel nostro sentirci così a casa a Tel Aviv e così incuriositi a Ramallah e così spaesati a Gaza – anche quando reagiamo simpatizzando per Ramallah o abbracciando gli asinelli piagati di Gaza. I bambini sono merce rara per noi. Benché la caratteristica più sorprendente di Israele sia la sua vivacità demografica, a un tasso più che doppio di quello nostro, la natalità nei territori palestinesi è ancora più alta (ed enormemente più alta è la mortalità infantile). Ci figuriamo Gaza come un formicaio umano e soprattutto infantile, e i suoi padri come fatalmente rassegnati o esaltati dal sacrificio dei loro piccoli, e i suoi capi cinicamente disposti a servirsene come di scudi umani, i più redditizi per la loro propaganda. C’è, nella nostra immaginazione, un’inflazione di bambini palestinesi, vivi o morti. Ad aggravarla ha provveduto lo spettacolo frustrato o assuefatto dei bambini sterminati nella guerra dei dieci anni di Siria. 

 

Leggo mie vecchie righe. “La strage di Erode: non ci fu, probabilmente. Se ci fu, calcolano i demografi sulla base della popolazione presunta di Betlemme, uccise una ventina di bambini sotto i due anni. La demografia di Gaza diventa agghiacciante, quando suona la sirena delle bombe. La maggioranza della popolazione ammassata in quel fazzoletto di terra è composta di bambini e ragazzini: un giardino d’infanzia in un miserando zoo umano.


Non c’è un Erode geloso a mandare aerei sulla striscia di miseria e rancore. Gli israeliani vogliono davvero ridurre al minimo le vittime civili, che Hamas ostenta. Non possono essere così disumani né così imbecilli da mirare e colpire i bambini. Ma quando si interviene con un simile spiegamento di forza in un enorme giardino d’infanzia, tanti (quanti?) bambini moriranno, resteranno feriti e mutilati e, quelli che sopravviveranno, non lo dimenticheranno più, e assicureranno altre generazioni al trionfo dell’odio e della vendetta”. 

 

La novità più allarmante di questo nuovo capitolo della guerra di ballatoio israelo-palestinese sta nella ribellione strenua degli arabi israeliani di Jaffa – il glorioso sobborgo di Tel Aviv, dove gli arabi sono maggioranza – di Lod – il glorioso centro vicino all’aeroporto internazionale, dove gli arabi sono più di un quarto e la convivenza era più felice – e di altre città, che fanno parlare di guerra civile. Leggo, nelle migliori cronache, che a ribellarsi sono i ragazzi. Dagli arabi israeliani, fuori da Gerusalemme est, non ci si aspettava una simile combattività, e del resto gli estremisti ebrei l’hanno infiammata. Gli arabi israeliani non sono né i palestinesi recintati dei territori e di Gaza, né cittadini israeliani a pieno titolo. Sono meno combattivi e, sembrava, molto più integrati: forse perché, come gli integrati, ma a titolo decurtato, pensano al futuro dei loro figli. I loro figli sono troppo giovani per pensare al futuro, per non ribellarsi all’umiliazione dei loro padri, per non sentire il richiamo della solidarietà con le loro sorelle e i loro fratelli di là dai recinti. I bambini crescono.

Di più su questi argomenti: