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Piccola posta

Addio a “Jovo” Divjak, il più amato dai sarajevesi, difensore della città

Adriano Sofri

Colonnello dell'armata popolare jugoslava, poi generale, nel caos della guerra civile ha avuto la forza di rimanere vicino ai più deboli, a prescindere dalla loro etnia

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Jovan “Jovo” Divjak, morto giovedì 8 aprile, era l’uomo più amato dai sarajevesi perbene. Non importa ripetere che era stato un eroe: ci sono circostanze, e i quattro anni di assedio di Sarajevo lo erano, in cui comportarsi da eroi diventa quasi facile, necessario. E’ stato dalla parte giusta. Di origine serba – “di famiglia cristiano-ortodossa” – aveva scelto, e altre e altri con lui, di restare nella città assediata e falcidiata dai serbisti. Ha deriso le pretese “etniche”, tanto più grottesche in un paese che doveva inventarle, diviso com’è solo dalla storia e dalle vicende religiose.

Colonnello dell’Jna, l’armata popolare jugoslava, poi generale, aveva impedito che le armi della città venissero portate via dagli urbicidi e le aveva destinate alla difesa. Difensore della città, il secondo in grado, non si era mai piegato al nazionalismo dello stesso partito etnico bosniaco-musulmano e aveva denunciato i crimini di certi suoi capibanda. Era stato il campione dei rinnegati per i fanatici serbi, ed era stato isolato anche dai capi musulmani, ma sempre protetto e protettore dei civili, di quella resistenza quotidiana, di donne soprattutto, in cui confidava.

Lasciati i gradi – ma era ancora “il generale” per eccellenza, “legenda” – aveva dedicato la sua formidabile energia e il suo prestigio all’assistenza e all’educazione degli orfani di guerra e dei minori più bisognosi. La sua associazione, “Obrazovanje Gradi BIH”, “L’istruzione costruisce la Bosnia-Herzegovina”, ha aiutato migliaia di bambine e bambini e adolescenti di ogni origine (compresi i rom, i più abbandonati nella guerra dei razzismi nazionali), contrastando il delirio di un paese, disegnato dallaccordo di Dayton 1995 che mise fine alla guerra ma non procurò la pace, in cui ogni cantone e perfino ogni quartiere ha il proprio ingordo manuale di storia e i propri monumenti, nemici della storia e della memoria degli altri. Un uomo come lui, militare di formazione, cavalleresco per temperamento, aveva dovuto assistere impotente alla consumazione dello sterminio genocida di Srebrenica: la Srebrenica che Dayton ha lasciato dentro i confini della Republika Srpska. 

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Nel 2011 l’odio irriducibile del governo di Belgrado per il “traditore” fece emettere un mandato di cattura internazionale contro Divjak, accusato di crimini di guerra, e la polizia austriaca troppo compiacente lo arrestò all’aeroporto di Vienna dove faceva scalo alla volta di Bologna. Fu incarcerato e poi messo agli arresti, e liberato solo dopo quattro mesi, riconoscendo infondata e calunniosa l’accusa. Si misurò allora quanto Sarajevo amasse quel suo cittadino, che l’aveva scelta. Anche in Europa ci fu una forte protesta, soprattutto in Italia e in Francia, i paesi da lui più amati e frequentati, quelli dove era uscita la sua memoria dell’assedio, “Sarajevo mon amour”, scritta con Florence La Bruyère, nel 2004, e in italiano nel 2007, tradotta dal suo amico Gianluca Paciucci e introdotta da Paolo Rumiz per l’editore Infinito.

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“Sarajevo ljubavi moja” era la canzone di Kemal Monteno, scritta nel 1976 e mutata nella colonna sonora affabile e nostalgica dei giorni dell’assedio. Una canzone sulla primavera e le ragazze. Monteno, un altro degli innamorati della città universale, è morto nel 2015. Le canzoni sono preziose come il pane nella città abbuiata. Una notte in cui ero chiuso con Jovo nella casa di un’ospite amica, dopo aver mangiato e bevuto come si poteva col coprifuoco e l’inverno in una città assediata, alla fine, dopo che avemmo cantato tutte le canzoni comuni, lui si mise a cantare bellissime canzoni popolari serbe, di quelle che non avevano nessuna colpa dell’infamia in corso.

Pochi giorni fa, il 6 aprile, Alexander Langer è stato nominato solennemente cittadino onorario di Sarajevo, 25 anni dopo la sua morte. Al riconoscimento Jovan Divjak si era specialmente adoperato, con l’ambasciatore italiano, Nicola Minasi.
Jovo era un uomo forte, grande, senza paura. Era affettuoso, spiritoso, romantico, efficace. Era un mio amico. Non mi salutava abbracciandomi: mi sollevava da terra. Si sapeva che era malato, e aveva 84 anni. Oggi, in questa penosa primavera, mi dispiace tanto non essere a Sarajevo.

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