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Piccola Posta

Sentirsi "dei sopravvissuti"

Adriano Sofri

Quando la solidarietà si mescola con una congratulazione egoistica e con una sensazione di potere per esser scampati al Covid

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Caro Alfonso Musci, scrivo a te nella tua attuale veste di studioso appassionato e originale (“empatico”, si direbbe oggi) di Elias Canetti. Il fatto è che la notizia italiana di ieri, “Covid: raggiunto e superato il numero di centomila morti” fa dei vivi, e in modo pregnante dei vivi anziani e vecchi, coetanei della grandissima maggioranza dei morti, fa di loro, di noi, dei sopravvissuti. Centomila è abbastanza per evocare “il mucchio”, “la catasta” dei morti, no? Tanto più quando il loro smaltimento ricorda la fossa comune.

 

E certo lo è simbolicamente e psicologicamente – non a caso si è celebrata la soglia toccata e superata. Anche in tempi ordinari succede ai vecchi, sinceramente o per un vezzo, di sentirsi “dei sopravvissuti”. La pandemia però ha aperto una lotteria, un’emulazione del pedaggio colossale imposto dalla guerra, che però miete i giovani. In Italia ci sono quasi 4 milioni e mezzo di persone sopra gli 80 anni, ben più di 7 milioni quelle che hanno più di 75 anni. Accanto al totale, ciascuna, ciascuno di loro ha avuto notizia personale della morte di qualcuno dei suoi, parenti, amici, conoscenti. E siccome matematica e statistica permettono la contabilità e la previsione sulla percentuale inevitabile di morti, chi è (provvisoriamente) vivo sente di essere sopravvissuto perché altri sono morti.

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Hanno coperto la quota prevista. Così, la solidarietà, la compassione di una condizione che accomuna, si mescola con una congratulazione egoistica e con una sensazione di potere, di averla meritata, di averla strappata questa vita supplementare. Di essere stati più forti: si decorino pure gli altri alla memoria, ai veterani resta la loro ultravita. L’Italia, l’Europa, erano il paese, il continente invecchiato, con un’alta quota di longevi: diventano il paese, il continente, con un’alta quota di sopravvissuti.

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