piccola posta

Resti d'Amazzonia

Adriano Sofri

Bolsonaro è abominevole ma ha una freccia al suo arco: la trave nei nostri occhi

Scrivo per lodare il reportage-documentario che ha aperto su Rai 3 “Presadiretta” lunedì sera, “Guerra all’Amazzonia”, e il suo autore, Marcello Brecciolini. (Una seconda parte, a suo modo raccapricciante, aveva a che fare col nostro consumo di carne in generale, e di carni brasiliane in particolare). L’Amazzonia è uno dei luoghi grandiosi, come il Borneo, come il Congo, in cui gli umani cacciano inflessibilmente se stessi e gli altri animali e le erbe e gli alberi dal paradiso terrestre, e lo bruciano e lo radono al suolo. Lo fanno con energia rinnovata, come di chi si sente vicino a completare finalmente, alla rovescia, l’opera della creazione: che sembra la nostra vera vocazione. Lo guardano compiersi da casa loro, dopo cena, in poltrona e dall’alto dei cieli, grazie a un drone mandato a filmare le ceneri calde. Gli umani sono poetici, dopo cena, poeti epici, l’Amazzonia scomparsa (già scompare il Pantanal) sarà favolosa come l’Atlantide, come Lemuria, finché il sole risplenderà sopra i delitti umani.

  

Noi, la nostra fiera generazione, abbiamo ancora visto i grandi alberi e i piccoli indigeni guardiani della foresta con l’arco e le frecce che cercano i piccoli incendiari, avanguardie dei magnati della soia dei minerali del compensato e delle carni di zebù. Abbiamo sentito i bravi missionari spiegare, con un dolore misto di mortificazione, che da qualche anno non si assassinano più le suore bianche e i preti ostinati, ma i resistenti indigeni, che quando cadono non fanno rumore, come i grandi alberi.

   

Bolsonaro è abominevole, è imbarazzante ripeterlo, tanto più che lo è con uno schiacciante suffragio universale. Ma tutto ciò che è abominevole, eccessivo, ha una freccia, diciamo così, al suo arco: la trave nei nostri occhi. Che cosa facciamo noi del nostro pezzo di pianeta, che cosa abbiamo preparato per cena stasera. Bolsonaro eccita l’assalto del virus e dei distruttori di foreste, e i suoi record si superano mese dietro mese. Ma l’Amazzonia la stavamo bruciando da tanto, e anche con i nostri al governo.

   

Ebbi come una rivelazione un giorno, fra la fine degli anni 70 e l’inizio degli 80, quando durava il lungo regime militare, e un ministro dell’energia brasiliano fece la sua dichiarazione: “L’Amazzonia è il polmone del pianeta? Ne parleremo quando ci pagherete l’ossigeno a un tanto al barile, come il petrolio”. Sembrava una frase ridicolmente grottesca, e lo era, naturalmente. Però… Nell’estate del 2019 Macron incontrò il cacicco Raoni e parlò al G7 della complicità ecocida della Francia, e alluse a una internazionalizzazione della difesa dell’Amazzonia sotto la famosa egida dell’Onu. Ne seguì la sfida maschia del neoeletto Bolsonaro, che pubblicò le foto delle rispettive mogli per mostrare chi ce l’aveva più lungo, e dichiarò alla stampa che per difendere l’ambiente bastava cacare una volta ogni due giorni, e ricette simili.

   

Il servizio di “Presadiretta” ricordava la sovvenzione d’emergenza esibita allora da Macron, 20 milioni di dollari del G7 contro gli incendi in corso, per bombardare d’acqua. Buona idea, ma con 20 milioni di dollari si pagano pochi barili di ossigeno. Se davvero il mondo più ricco e più libero, quello che compra in saldo la propria extra quota di inquinamento dai paesi moribondi, volesse fare la sua offerta agli indigeni dell’Amazzonia e all’intero popolo brasiliano e peruviano e colombiano eccetera, dovrebbe alzare di moltissimo la sua posta. Si tratterebbe anche, dopotutto, di una restituzione.
 

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