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Piccola Posta

Leggere Francesca Mannocchi per resistere al “niente sarà più come prima”

Adriano Sofri

Nel suo ultimo lavoro, la giornalista racconta di sé e della sua malattia, delle persone della sua famiglia, per cerchi via via più stretti, circondata, assediata, forse liberata. Un libro che chiede a chi legge di essere coraggioso

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"Pensai: nei miei trent’anni mi ammalerò. E così è stato”. Francesca Mannocchi racconta sé e la propria malattia. Non so se si possa dire racconta, ci sono capitoli da reportage, a volte sono pagine di diario e note di taccuino, spesso somigliano a un referto, il referto nella lingua sua che sfida la lingua medica. Non è nemmeno vero che racconti la propria malattia, come se fosse un’altra cosa da sé, e non si fa raccontare dalla malattia. E poi, fin dall’inizio, racconta di sé e delle persone della sua famiglia, per cerchi via via più stretti, circondata, assediata, forse liberata. C’è un nonno, nelle prime righe, tolto dalla cornice d’ottone e immaginato finalmente come doveva essere, “l’andatura sobria di chi ha vergogna e dice sempre grazie e prego, permesso e si figuri”. “Da tre anni e mezzo mi fermo a prendere un caffè nel bar della stazione di servizio dove lavorava mio nonno, ogni tre mesi se va male, ogni sei se va bene. Un caffè doppio in tazza grande, prima di entrare a Villa Santa R., con l’uniforme da risonanza magnetica per controllare l’evoluzione della mia malattia”. Fra poco le rifaranno tutte le domande regolamentari prima della firma per il consenso informato. Poi il radiologo le dice: “È nervosa, sarà lunga, vuole un calmante?”. “No, grazie, ce la faccio”. Quel nonno era uno umile che diceva grazie e prego. Lei, Francesca, è una che dice: “No, grazie, ce la faccio”. 

 


Ha 39 anni e una sclerosi multipla, la forma più comune. Alle persone piace raccontare che la loro malattia è specialmente rara e romanzesca. Stare nella maggioranza – l’85 per cento, in Italia 118 mila all’anno, 3.400 nuovi casi all’anno – vuol dire “la forma secondariamente progressiva”, l’altro 15 per cento sta nella forma primariamente progressiva. Alla ricerca sulla maggioranza presumibilmente si dedicheranno più risorse. La dottoressa S. spiega che siamo nel “quarto di secolo che ha cambiato la storia della sclerosi multipla… Vuoi vedere che negli anni troveranno una cura? Voglio vedere? Certo che voglio”. 

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Che abuso abbiamo fatto della compunta sentenza: “Niente sarà più come prima”. La pronunciavamo come se la società minacciata dalla pandemia fosse come un individuo cui è appena stata diagnosticata una malattia grave, “ingravescente”, invalidante e infine fatale. La società, una sua buona parte, scende in piazza perché tutto torni esattamente come prima. La pandemia per giunta ha perpetrato due delitti nefandi: ha tolto a tante persone il diritto alla loro morte personale (erano vecchi, casse e ceneri anonime) e a tante altre la premura per la loro personale malattia, diversa dal Covid. Chi riceve una diagnosi che di colpo certifica che “non sarà più come prima” viene per così dire separato da sé. Mi chiedo se si possa dire che Francesca abbia scritto per non lasciarsi separare da sé: da “come era prima” e com’è ora, e come sarà domani. Prima, per esempio: “Ho vissuto in un corpo che aveva bisogno di liberarsi dal lazo dello sguardo degli altri”.

 

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È un pessimo modo di recensire un libro, ma voglio citare un mio fatterello personale con l’autrice, che avevo notato perché frequentava i gironi infami del mondo, quelli delle guerre, delle fughe, delle epidemie, dei massacri civili e militari, e perché aveva, vista in televisione, una bella risolutezza a contrasto con un aspetto fragile. Si va in quei posti per ragioni diverse, non tutte nobili, ma c’è qualcosa che accomuna chi ci vada davvero a conoscere capire e condividere. Qualcosa che si rinuncia a spiegare a chi chieda: ma perché ci vai? Ero diventato attento a quella Francesca che scriveva e parlava di quei posti, a volte gli stessi che stavano a cuore a me, e avevo il desiderio di abbracciarla. Poi un giorno trovai l’articolo dell’Espresso in cui lei diceva della sua malattia. Tempo dopo l’ho incontrata, ero contento, non le ho chiesto di abbracciarla perché avrebbe potuto pensare che volessi abbracciare la sua malattia.

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Uno di quei posti è il Kurdistan iracheno di Erbil, un altro Mosul. Francesca scrive di quando partì, e aveva appena messo al mondo il suo bambino, Pietro. “Così un giorno, tu eri nato da un mese e mezzo o giù di lì, ho lavato i biberon, preparato la borsa con le tue cose per portarti da mia madre e ho fatto un biglietto aereo per Erbil, Iraq settentrionale. Era iniziata la guerra di liberazione di Mosul dall’Isis. Sono partita”. Il suo esordio precoce da madre degenere. In una pagina di diario del 2017 c’è l’“Elenco delle cose che temo di non poter fare più”. La prima: “Nuotare con mio figlio”. Poi altre, come fare l’amore, fare la valigia, deglutire… E l’ultima: vedere Pietro diventare uomo. 

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Si legge il libro e si pensa: ora so tutto di F.M. No, naturalmente. Si sanno molte cose. Di sua nonna, la beniamina, che andava a servizio dalla periferia al centro, così anche Francesca andò a scuola in centro, ci metteva un’ora e mezza, le compagne e i compagni avevano nomi come Luca Maria o Lupo e cognomi da classe dirigente, lei era la prima della classe, imparò, dice, la ferocia dei bambini e anche la disuguaglianza. So che al suo ultimo anno di liceo aveva i capelli “molto lunghi e sempre stirati” – come adesso, dunque – e però “li ho ricci, in verità, ma non sono riccia dentro”.  L’altra sera, mentre la stavo leggendo e mi chiedevo come stesse, ho rivisto Francesca in televisione, a “Propaganda”. Stava benemale. Benemale, come dice Pietro. In forma. Per un libro così viene da impiegare due aggettivi, sincero e coraggioso: uno peggio dell’altro. Sincero va vietato in genere, che si tratti di sé o di altri, tranne che per un buon vino, o per firmarsi “sinceramente suo”. Coraggioso si può, ma, se non temessi di nuocere alle vendite, direi che è un libro che chiede a chi legge di essere coraggioso. Ce la può fare.  (“Bianco è il colore del danno”, Einaudi, pp. 210, 17 euro)

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