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Il giudice di Sciascia ci dice molto sullo stato della giustizia in Italia

Adriano Sofri

Non è un mistero che in Italia vinca chi sostiene che esistono solo colpevoli che l’hanno fatta franca

Ho ascoltato, dalla solita notturna Radio Radicale, la “Lettura Massimo Bordin” dedicata al Contesto di Leonardo Sciascia – si tratta di una serie di incontri nel centenario della nascita di Sciascia, questo si teneva, virtualmente, a Torino, con la promozione degli Amici di Sciascia e dell’Unione delle camere penali, e la partecipazione, per il Centro “Primo Levi”, di Domenico Scarpa. Mi fermo, a titolo per così dire personale, sulle relazioni che hanno al centro lo stato della giustizia oggi: di uno studioso illustre di procedura penale, Paolo Ferrua, di un magistrato (già pubblico ministero e giudice) appena pensionato, Paolo Borgna, di un avvocato e docente penalista, Gaetano Insolera.

 

Va da sé che incontri simili prevedano un consentimento dei partecipanti, confermato dalla gamma di citazioni chiamate a sostenerne le argomentazioni: nomi come Domenico Riccardo Peretti Griva, Luigi Ferrajoli, Salvatore Senese, Elena Paciotti, Salvatore Mannuzzu, e naturalmente Piero Calamandrei. (Borgna cita bensì Giovanni Colli, “molto conservatore e monarchico”, ma per l’ammonimento che “indipendenza del magistrato non vuol dire arrivare in ritardo all’udienza”. Io ne ho un ricordo di sotto in su: dopo una mia assoluzione piena, nel ’70, per una manifestazione di senza casa di cui non avevo nemmeno avuto notizia, quel Procuratore generale torinese vantò a Gabriele Invernizzi per l’Espresso di “avermi comunque messo in galera”). Premessa comune è che il magistrato sacerdote, inaccessibile, di Calamandrei non esista più da tanto tempo, ma che ormai non esista più nemmeno la riflessione sul cambiamento che animò gli anni 70-80.

 

Dice Ferrua che l’esorbitanza del potere della magistratura ha due cause principali. La sua capacità di sostituirsi sia al potere legislativo che al potere esecutivo, mentre non vale il reciproco, salvo cadere in pieno stato di polizia. (segue a pagina tre) (E’ quello che avviene in Ungheria o in Polonia, nota mia). E la debolezza della garanzia promessa dalla soggezione del magistrato alla legge, aggirata dall’“interpretazione creativa” della legge stessa. E poiché non ci sono efficaci sanzioni, la legalità dell’operato dei magistrati è affidata al loro buonvolere, a loro discrezione. Ferrua si chiede che cosa attiri i giovani verso la magistratura: l’assoluta indipendenza, il rango, l’alto stipendio, un nobile impulso a rendere giustizia, ma anche la tentazione di un potere fine a se stesso, e ancora più l’inclinazione a giudicare non “secondo lo spirito e la lettera della legge”, ma con un’insofferenza per il metodo e le regole. Ferrua argomenta la duplice agonia del processo accusatorio, in vigore dal 1989 (fino ad allora vigeva il codice Rocco): con la sentenza del 1992 della Corte suprema che arrivò a dichiarare la formazione della prova nel contraddittorio un ostacolo alla ricerca della verità, e poi, dopo la reazione legislativa che aveva introdotto in Costituzione il giusto processo, con la cascata delle sentenze “creative”, l’inerzia o peggio la ratifica del legislatore, e l’intollerabile (tolleratissima) lunghezza dei processi, che annulla la tempestività delle testimonianze. Ferrua si spinge a suggerire che la lentezza sia “astutamente funzionale a vanificare il processo accusatorio, come le liste di attesa ospedaliere tese a scoraggiare l’ingresso dei pazienti a vantaggio delle cliniche private”. Risultato, la custodia che anticipa o usurpa la pena, l’indagine che prevale sul dibattimento. Due anni fa, dice, nel trentennale del nuovo codice, si celebrò un moribondo. Paolo Borgna cita i moniti di Peretti Griva sul malinteso orgoglio della funzione che paralizza il timore di errare, nel compito quasi sovrumano di giudicare gli altri. E’ un luogo comune letterario (Sciascia, Camilleri, per esempio), tuttavia vero, quello del giudice che nella maturità è angosciato dal pensiero degli errori commessi. La storiella raccontata da Calamandrei sul vecchio giudice al cui capezzale accorrono gli allievi, e dice il tormento di andarsene con un fardello di sentenze arbitrarie, e loro lo rassicurano: “Stia sereno, Presidente, sono state tutte riformate”. Che forse era solo un witz, ma suggerisce a me una considerazione serissima: la battuta allude infatti, oltre che alla facilità con cui si incorre negli errori o negli arbitri giudiziari, alla fiducia di rattopparli nei gradi successivi. E’ piuttosto invalsa un’attitudine a definire errore giudiziario quello che una sentenza successiva e definitiva abbia corretto. Non condivido questa fiducia, con tutto me stesso, per così dire. Certo, i nemici dell’appello e i fautori delle restrizioni all’ammissibilità in Cassazione hanno fretta di rendere irreparabile l’errore commesso in primo grado. Ma ci sono presidenti sul letto di morte che nessuno potrebbe confortare dicendogli: “Sono state tutte riformate”. Voglio restare al punto dell’errore giudiziario – mescolo i miei argomenti a quelli autorevoli che riferisco. I relatori si sono accorti come il personaggio del giudice di Sciascia, assimilando se stesso al sacerdote che dice messa, si fa tramite dello stesso processo di transustanziazione, per il quale non conta che il sacerdote, o il giudice, sia personalmente infedele o inetto: dunque l’errore giudiziario non esiste, non può esistere, e la sentenza è sacra. Una emulazione corporativa del dogma dell’infallibilità. E guardate che qui non c’è niente di paradossale. Senza questa spregiudicata pretesa sacrale quale pubblico accusatore, quale giudice preso con le mani nel sacco potrebbe aspettarsi che la moltitudine di anonimi passati per le sue mani e condannati si rassegnassero al proprio destino? E del resto, senza una tale investitura magica, come si spiegherebbe l’immunità dei magistrati alle sanzioni – l’autoimmunità? Si è chiesto Borgna, un membro autorevole della categoria, come sia possibile che Antonio Bassolino sia uscito assolto 19 (diciannove) volte da processi durati 17 (diciassette) anni senza che la magistratura nel suo complesso e i singoli magistrati abbiano battuto ciglio, lungi dal farne un tema di confronto decisivo? Domanda ripetuta da Gaetano Insolera, che le ha accostato il principio esposto tante volte e in tante sedi da Piercamillo Davigo che è diventato uno slogan: non esistono innocenti, esistono solo colpevoli che l’hanno fatta franca. Bassolino l’ha fatta franca 19 volte – tutte. E il portatore di questa concezione del mondo, aggiunge Insolera, ha ricevuto 1.600 voti per il Consiglio superiore della magistratura, e non se ne voleva andare nemmeno dopo la pensione.

 

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