Don Roberto Malgesini (foto Ansa) 

Piccola Posta

Don Roberto Malgesini e il coraggio di annullare la distanza dal suo assassino

Adriano Sofri

Il "prete degli ultimi", boicottato dalle autorità, aiutava i bisognosi. La sua fine dice che fare il bene è rischioso se davvero ti avvicini al "prossimo tuo" 

Leggerò altre notizie sul prete Roberto Malgesini, ricordato da chi lo conobbe. Intanto, frugo nel serbatoio della rete, per trovare qualcosa di più di quello che improvvisano le cronache di un omicidio. A Como, un sacerdote di 51 anni, dedito all’aiuto e all’accoglienza di poveri, disperati e diseredati di ogni storia, accoltellato più volte, a morte, da un immigrato irregolare magrebino di 53 anni. Le scontate parole leghiste. Quelle, opposte, che denunciano l’aria d’odio che si respira, forse un po’ scontate anche loro. Per esempio: le cronache ricordano che 21 anni fa, il 20 gennaio del 1999, a Como, un altro prete, don Renzo Beretta, 78 anni, era stato accoltellato più volte, a morte, con un coltello da cucina, roba minima, da un altro immigrato irregolare magrebino, di 31 anni (“Lasciatemi piangere in silenzio un prete al quale ho voluto un gran bene”, aveva detto il famoso vescovo di Como di allora, monsignor Alessandro Maggiolini, poco tenero con l’immigrazione musulmana). L’uomo gli aveva chiesto 60 mila lire, don Renzo aveva detto di non potere, che aspettasse. Al suo vicario che lo soccorse ancora vivo, il vecchio prete disse: “Non è nulla, voleva solo spaventarmi”.

 

Don Beretta aveva la sua chiesa a Ponte di Chiasso, a 100 metri dalla dogana svizzera. Don Malgesini non aveva la cura di una parrocchia, il suo territorio era la strada, faceva capo alla parrocchia di San Rocco, in un quartiere ora popolato di immigrati. Quando persone così muoiono ammazzate, le loro diventano vite di santi. Don Beretta aveva ospitato il primo profugo nel 1986, uno di origine slava. Poi fu la volta soprattutto di libanesi e di albanesi e così via. Dall’altro lato del confine c’era un prete svizzero di origine romena, Cornelius Koch, che faceva lo stesso. Letti nei locali della parrocchia, materassi nelle navate della chiesa, panche usate come brande. Anche don Beretta ebbe a che fare col malcontento dei cittadini, e le intimidazioni delle autorità. Qualche mese prima di morire indirizzò ai fedeli una lettera: “L’inverno è alle porte. Non sono un romantico: siamo persone, siamo cristiani, conosciamo il detto del Signore: Quanto hai fatto a uno di questi, l’hai fatto a me. Io, prete, qui, devo essere, almeno, la Sua Ombra… Non posso barare. E chi, e quale legge ci può impedire di ‘aiutare’ questa gente allo sbando?”. Del prete Malgesini, abbiamo letto ieri che la sua distribuzione di colazioni agli affamati era stata multata – multa poi cancellata. Che il portico di un’altra chiesa in cui la distribuzione avviene è destinato a essere sbarrato dall’autorità. Ho trovato in rete poche citazioni precedenti dell’opera di Malgesini, una in particolare: è il testo della Via Crucis del Venerdì santo del 2018, scritto da lui e dai volontari che con lui collaboravano, e che raccontano storie degli estranei, nome e cognome, di cui erano diventati i samaritani. Scriveva là Roberto Malgesini: “Non esiste il benefattore e il bisognoso di aiuto. Esistono solo fraternità, cura e l’affetto reciproci”. Era come annullare preventivamente la distanza dal suo assassino. Scriveva, sotto il titolo “HO VISTO DEI FRATELLI…”: “Ho visto togliere panchine e sanitari in una piccola piazza della mia città natale dove giovani migranti trovavano un po’ di sollievo durante il giorno prima di essere ingabbiati in centri chiamati di accoglienza durante la notte. Ho visto togliere la fila di sedie in un santuario detto della Provvidenza per non lasciar più entrare i senza tetto che durante il giorno venivano a riposare davanti al crocefisso che apriva loro le braccia. Ho visto emettere una ordinanza per scacciare senza tetto che chiedevano un po’ di attenzioni ai turisti e alla gente ricca che festeggiava Natale e il nuovo anno. Ma ho visto anche dei fratelli continuare ad aiutare gli scacciati, passando silenziosi oltre le minacce delle autorità o della maggioranza del popolo”. Non si può sorprendersi di trovare esempi simili di carità cristiana e cattolica.

 

A Sarajevo tutti conoscevano un altro parroco del comasco, che vi si era trasferito dal 1995 con la sua associazione “Sprofondo” per aiutare durante l’assedio e dopo. Si chiamava anche lui Renzo, don Renzo Scapolo, non so se conti Manzoni. Del resto il patrono di Como è sant’Abbondio. Don Scapolo è morto a 79 anni nel 2017. Lo chiamavano “il prete degli ultimi”, “il prete della pace”. Don Malgesini, abbiamo appena letto, lo chiamavano “il prete degli ultimi”, “il prete del sorriso”. E così don Beretta. I soprannomi si scambiano volentieri. Nemmeno si può sorprendersi che il bisognoso di aiuto si vendichi, per così dire, sul suo benefattore. E’ rischioso, fare il bene. Rischiosissimo quando si decide di farlo da vicino. Di annullare davvero la distanza sociale e la distanza fisica – neanche due metri, un metro – dal bisognoso di aiuto: dal prossimo tuo. Ieri era indetta a Como una messa serale in cui si sarebbe pregato per don Roberto e per colui che l’ha ammazzato. Può sembrare retorica, addirittura ipocrisia, oppure no.

 

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