Lettere da Cuba di Saverio Tutino, giornalista militante

Adriano Sofri

“Yo soy Fidel”, la raccolta di scritti inviati alla figlia Barbara

Saverio Tutino (1923-2011) è stato un gran personaggio della vita civile italiana, bello e pieno di capelli presto candidi, giornalista e militante – giornalista militante, figura di cui oggi resta poco più che la parodia: giovanissimo capo partigiano nella zona di Ivrea, inviato dell’Unità e dal 1975 di Repubblica, fondatore e animatore dell’Archivio dei diari di Pieve Santo Stefano. L’informazione sulla rivoluzione cubana e sulla sua vicenda successiva hanno, non solo in Italia, il suo nome, così come il mito di Cuba e il ripensamento di quel mito. Barbara Elter Tutino, sua figlia (1957) è una pittrice, viaggiatrice, militante di sinistra e femminista e alpinista eccetera, piena di capelli rossi, e ha ora pubblicato “Yo soy Fidel” (Cantagalli). E’ un libro illustrato da foto cubane “storiche” e dalle belle fotografie di Cuba 2016 di Francesco Comello (Udine 1963), e contiene un testo di Barbara – il ricordo dei suoi viaggi a Cuba, specialmente del primo, diciottenne, con suo padre – le lettere inedite che Saverio indirizzava da Cuba a lei bambina, e uno sconclusionato ritratto di Saverio a firma del celebre scrittore Norberto Fuentes (L’Avana 1943), che racconta un’occasione politica insieme drammatica, delicata e quasi comica, alla vigilia dell’arresto del poeta Heberto Padilla. Fuentes ricorda che Saverio era stato colpito da un suo reportage sul Granma, in cui si citava un canto di guerriglieri nell’Escambray intitolato Abelachau: cioè, come Saverio intuì, Bella Ciao, e corse a cercare quei cantanti.

 

Tutino viaggiava in un’aura avventurosa e inevitabilmente misteriosa, da agente all’Avana e altrove: in verità fu sempre agente di se stesso e degli ideali cui era lealmente devoto. “Si immischiava – scrive Fuentes – senza troppi inciampi in qualunque delle cospirazioni nazionali e internazionali che sorgevano quotidianamente nella città”. Alla ragazza Barbara nel 1975 capitò di sedere a cena col favoloso “Barbarossa”, Manuel Piñeiro Losada, capo dei servizi segreti e dell’esportazione internazionale della rivoluzione cubana: “A un tavolo accanto c’era gente che commentava le portate. Al nostro parlava soprattutto mio papà, mentre Piñeiro taceva e ascoltava. Alla fine disse: ‘Me encantan, los que hablan de comida, comiendo’”.

 

Raccomando in particolare le lettere paterne di Saverio, con la descrizione delle partite di pesca subacquea, fra assedi di tiburones e danze di delfini “più lucidi di una pentola lucidata”. Avrebbe poi intitolato così una sua “autobiografia di un comunista”, per Feltrinelli 1995: “L’occhio del barracuda”. Allora, 1967, le aveva scritto: “In fondo, sono andato a pesca anche per poterti raccontare cose più divertenti della politica. Ciao, Barbara”.

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