Marcello Dell'Utri (foto LaPresse)

Tenere Dell'Utri in prigione rimanda a una pratica della galera come vendetta

Adriano Sofri

Detenzione in carcere e questioni di incompatibilità

Le decisioni su Marcello Dell’Utri dovrebbero dipendere da poche nitide condizioni: ha legami criminali che possano attualmente costituire un pericolo per la società, nel caso in cui invece che in una cella risiedesse in una casa? C’è un fondato pericolo che, trasferito in una casa, voglia e possa commettere delitti come quelli che le sentenze gli hanno attribuito? Se, come sembra ovvio, la risposta è: no, tenere Dell’Utri in galera è una cattiveria. Ci sono, nelle persone contrarie al trasferimento di Dell’Utri alla detenzione domiciliare, altri argomenti malintesi. Uno è la natura del reato che gli viene addebitato: ma le misure che prevedono un’incompatibilità della reclusione carceraria per ragioni di salute, che in questo caso si aggiungono alle ragioni dell’età avanzata, non hanno a che fare con la natura del reato per cui si è detenuti. C’è un’eccezione, molto arrischiata, e riguarda il 41 bis, e comunque non si applica ora a Dell’Utri.

  

Un altro argomento è l’iniquità di una clemenza riservata a persone a diverso titolo “privilegiate” – notorietà, rapporti coi poteri, amicizie influenti – mentre sugli innumerevoli detenuti anonimi e invisibili infierisce una distratta o accanita ottusità burocratica. L’argomento illude i suoi fautori di una nobiltà, salvo che mai – o molto raramente – ad avanzarlo è gente che dedichi una qualche propria risorsa ed energia, o anche solo intimo pensiero, a quegli anonimi e invisibili, che dunque raddoppiano il danno d’essere ignorati con la beffa d’essere usati a spese altrui. E quali sono gli argomenti dei magistrati secondo i quali Dell’Utri deve restare in galera? Chi ritenga che siano sinceramente espressi nelle loro ordinanze le legga e se ne contenti. Ma anche per i magistrati, come per il resto della pubblica opinione, si può credere che intervengano altre influenze, facili da immaginare su una ricca scorta di precedenti. Dunque mi limiterò a evocarne uno: il risentimento eventuale rispetto al fatto che Dell’Utri non abbia “collaborato”, cioè non abbia deciso di cavarsi dalla sua pesante situazione dicendo cose utili ad accusare altri o ad accreditare ipotesi accusatorie. Non dico che sperino tuttora di ottenere da Dell’Utri in futuro una tale collaborazione, ipotesi che sembra del tutto esclusa, anche quando il detenuto si trovasse in extremis. Dunque un simile argomento, per me detestabile come una tortura, è anche realisticamente infondato e rimanda a una pratica della galera come vendetta pubblica e privata che resta formidabile e anzi va riguadagnando terreno ai nostri giorni. Così stanno le cose.

  

Qualcuno mi ha accostato alla vicenda di Dell’Utri in questi giorni: a sproposito sempre e quasi sempre rivelando uno stucchevole odio per me piuttosto che una commozione per Dell’Utri. Io non ho bisogno di adattare la mia posizione alle singole circostanze. Disprezzo e avverso la mafia senza alcuna esitazione, da sempre. Quando il famigerato Mangano stava morendo in galera mi augurai, dalla mia galera, che fosse mandato a morire vicino ai suoi, e lo ripeterei tal quale. So anche che la notorietà, o la fama, di persone che abbiano a che fare con la giustizia ha risvolti ambigui: può valere da privilegio ma anche suscitare un accanimento “esemplare”. Dunque mi auguro che Dell’Utri venga mandato a curarsi e vivere a casa sua e che altrettanto si faccia per lo spaventoso numero di detenuti gravemente malati, e per quella gran maggioranza di persone che stanno chiuse perché non siamo capaci di fare a meno del fantasma di una galera inutile e anzi controproducente per la sicurezza della convivenza civile. Un medico penitenziario che conobbi bene e che ha accumulato un’esperienza enorme, Francesco Ceraudo, mi ha raccontato che sta scrivendo un libro di memorie. Lo leggerò e intanto mi chiedo come riesca a maneggiare il peso di quella esperienza: il confronto infinito, come una fatica di Sisifo, fra le certificazioni mediche di una “incompatibilità” (è la parola tecnica) fra la detenzione e le condizioni di salute, e i rigetti di magistrati competenti. Il conflitto perenne fra due competenze, una “quoad vitam”, l’altra chissà, “quoad ius”, almeno nelle sue illusioni. Forse viene un momento, nella vita di un medico alla fine di una lunga carriera, uno che ne ha viste tante, troppe, in cui la domanda diventa se fra la galera, questa galera, e l’umanità, non ci sia una radicale insuperabile “incompatibilità”. Che sia la galera stessa – quando non sia imposta dalla difesa da un pericolo attuale e provato – la malattia, che la rende incompatibile con la vita. Povero medico, allora, e povero magistrato, e poverissimo detenuto.

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