Niccolò Machiavelli

Riflessioni sul corpo a corpo tra la Fortuna-donna e il giovanotto libero arbitrio

Adriano Sofri

"Nello scrittoio di Machiavelli" Lucio Biasiori affronta con qualche colpo di scena il tema travolgente attorno a cui gira il celebre capitolo XXV del Principe

Gli innumerevoli machiavellisti dilettanti, come me, saranno lieti di sapere che è uscito il libro di un giovane studioso vero, Lucio Biasiori, che affronta con qualche colpo di scena il tema travolgente della fortuna e della libertà nelle vicende umane, attorno a cui gira il celebre capitolo XXV del Principe. Si intitola “Nello scrittoio di Machiavelli”, sottotitolo “Il Principe e la Ciropedia di Senofonte” (ed. Carocci, 149 pp., 14 euro). Non fatevi mettere in soggezione dal sottotitolo. In effetti, Biasiori punta molto sul ricorso di Machiavelli a Senofonte. L’argomento è battuto, ma Biasiori segnala la fonte della lettura di Machiavelli, una versione dal latino in volgare italiano della Ciropedia eseguita da Jacopo Bracciolini, che a sua volta era una versione della Ciropedia dal greco in latino svolta dal più illustre padre, Poggio Bracciolini.

 

Si trattava di traduzioni molto riaggiustate, e Biasiori ne ricava una conferma alla sua idea che fra l’alto e il basso, l’ingaglioffito Machiavelli diurno della meravigliosa lettera al Vettori dall’Albergaccio, quello che se ne va a una fonte con qualche tascabile Dante o Petrarca o i “minori” Ovidio e Tibullo, e si rallegra dei loro amori e del ricordo dei proprii, e il solenne Machiavelli notturno che in panni curiali e reali tutto si trasferisce negli antiqui uomini e nel suo Tito Livio e in Senofonte e nell’arte del governo, non c’è la radicale rottura che lo stesso Machiavelli con bella retorica descrive e cui gli studiosi prontamente credono, ma un’ampia comunicazione reciproca. Che il Machiavelli dell’esperienza vissuta e il Machiavelli lettore dei grandi non siano contrapposti e nemmeno distanti.

 

Vorrei però soffermarmi sul tema che mi è più caro, quello della parte che nella vita umana spetta al destino – alle stelle, alla provvidenza, a Dio, al caso – e della parte riservata alla libera scelta. “Quanto possa la fortuna nelle cose umane, et in che modo se li abbia a resistere”. Biasiori rintraccia una fonte testuale dell’inizio del cap. XXV del Principe nel Commento di Cristoforo Landino (1425-1498) alla Divina Commedia, Purgatorio XVI, dove Dante chiede a Marco Lombardo perché il mondo sia stato abbandonato dalla virtù. E lui risponde: “Voi che vivete ogne cagion recate / Pur suso al cielo, pur come se tutto / Movesse seco di necessitate. / Se così fosse, in voi fora distrutto / Libero arbitrio, e non fora giustizia / Per ben letizia, e per mal aver lutto”. Il commento del Landino insiste sulla parte di libertà che spetta alla scelta umana: “… chome se e’ cieli di necessità ci spignessino a fare, et non fare, et a operare o male o bene… et noi non ce ne potessimo difendere. Il che se fussi, sarebbe spento in noi el libero arbitrio”. Dunque per Dante, “se così fosse, in voi fora /sarebbe/ distrutto libero arbitrio”. Per Landino, “il che se fussi, sarebbe spento in noi el libero arbitrio”. Machiavelli scriverà: “… Nondimanco, perché el nostro libero arbitrio non sia spento”.

 

La somiglianza, dice Biasiori, non può essere casuale. Tanto più che nello stesso commento del Landino, questa volta in Inferno VII, c’è l’immagine della fortuna donna, che sarà protagonista nel capitolo del Principe: “La fortuna dicono e’ theologi essere chome certa madonna /donna /, la quale rivolta et muta le chose humane stravagantemente, et con fine diverso dal proposito et non pensato né aspectato, le dispensa”. Suggestiva definizione di quella che secoli dopo sarà altrettanto stravagantemente chiamata eterogenesi dei fini, qui figurata come l’imprevedibile capriccio donnesco della fortuna. La derivazione indicata da Biasiori è convincente e illuminante. Avanzerei solo, se non un’obiezione, una limitazione, perché la fortuna-donna è immagine ricorrente innumerevoli volte, letteraria e ancor più figurata, dall’antichità. E la forza della sua irruzione nel cap. XXV del Principe sta, oltre che in una plasticità che rende la Fortuna-donna personificata e incarnata e quasi tangibile – anzi, fra poco, più che tangibile, battuta e urtata – nell’idea così rudemente “maschia” che come donna ami i giovani, e il loro impeto e la loro ferocia: ami esserne sottomessa e violata. Cosicchè nel cap. XXV del Principe l’opposizione tradizionale fra destino e libero arbitrio prende la forma di un corpo a corpo fra una donna e un giovane uomo, in cui il giovane uomo è sì destinato a soccombere, ma solo dopo aver molto combattuto e battuto, e magari in qualche situazione, in qualche momento, la Fortuna l’abbia carezzato e lasciato prevalere. Anche di questo corpo a corpo esistono immagini precedenti, ma nessuna ha preso la potenza visionaria e sensuale che le ha impresso Niccolò Machiavelli, nel suo esilio frustrato.

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