Foto di Daniele Raineri

Il guaio della truffa sui visti a Erbil e il difficile mestiere della diplomazia

Adriano Sofri

Dal Kurdistan al Kosovo del dopoguerra, similitudini

Sul Corriere della Sera Giuliano Cremonesi ha riferito ieri dell’incresciosa situazione del consolato italiano a Erbil, in cui è stato accertato un traffico di visti a pagamento che ha portato per ora a un rimescolamento degli incarichi e a un’inchiesta sulle responsabilità. È un episodio tanto più increscioso perché avviene in una regione, di fatto uno Stato in fieri, cruciale oggi per le sorti della guerra all’Isis e domani per la geografia politica del medio oriente. L’Italia gode fra la gente del Kurdistan – si tratta qui del Governo regionale del Kurdistan ufficialmente iracheno – di una radicata e fortissima simpatia, che il modo della presenza di suoi militari ha confermato. Ma da molto tempo la gente del Kurdistan scherza, più o meno sarcasticamente, sulle tariffe dei visti per l’Italia. Si può immaginare il pregiudizio che ne viene al nostro paese, e la preoccupazione che aveva indotto finora a non rendere pubblico il problema, confidando su una sua soluzione, che ha comunque tardato. D’altra parte è difficile capacitarsi degli argomenti della diplomazia, forse più ancora di quelli dei militari.

 

A Baghdad c’è un’ambasciata italiana il cui titolare, Marco Carnelos, si era distinto per essere l’unico rappresentante di un paese dell’Unione europea a rendere visita – renderla, non riceverla – al signor Qais al-Khazali, capo della “Lega dei Giusti”, Asaib Ahl al-Haq, la formazione più nutrita e oltranzista delle milizie sciite irachene, finanziate e addestrate dall’iraniana Forza Quds e dagli Hezbollah libanesi. Impegnata con l’alleanza pro-Assad anche sul fronte di Aleppo, la “Lega” aveva per esempio proclamato, per bocca del suo capo, che la battaglia per Mosul sarebbe stata l’occasione “della vendetta e della punizione degli assassini di Hussein”. Hussein è l’imam sacro agli sciiti che morì a Kerbala nel 680. Dunque l’espressione “gli assassini di Hussein” designa né più né meno che tutti i sunniti, e si può capire come suoni alle orecchie dei cittadini sunniti di Mosul su cui incombono simili “liberatori”. Avevo annotato in una cronaca che a metà dello scorso agosto l’ambasciatore italiano aveva fatto visita a al-Khazali, “primo nella diplomazia europea, dando atto del ruolo importante delle milizie sciite per l’unità e la riconciliazione dell’Iraq e per la stessa riconquista di Mosul. Episodio scabroso – avevo aggiunto – connesso forse alla protezione dei civili italiani e dei militari italiani che a loro volta li proteggono alla diga di Mosul”. E’ un fatto che gli italiani civili e militari impegnati alla diga di Mosul non hanno a che fare con le milizie sciite, grazie al cielo, avendo di fronte l’Isis e a fianco i peshmerga curdi.

 

È probabile che guai come la compravendita di visti al consolato di Erbil – alle spalle di responsabili come la giovane console alla sua prima nomina, ora rientrata a Roma “per ragioni familiari” – siano facilitati dalla scarsezza di risorse materiali e umane di cui l’ufficio è dotato. Questo accidente me ne ricorda un altro, di cui anche qui si è ripetutamente detto, che riguardò l’ambasciata italiana a Pristina, in Kosovo, e che indusse il ministero degli Esteri italiano a fare sfoggio di una severità feroce e inconsulta. Là Michael Giffoni, un giovane ambasciatore conosciuto e ammirato da tutti i frequentatori dei disastri balcanici degli anni 90, in particolare della Bosnia, commise l’errore di fidarsi troppo di un suo collaboratore locale, che per di più era il figlio di Ibrahim Rugova, così che anche nella sua ambasciata avvenne un traffico di visti. Mai nemmeno sospettato di una connivenza, Giffoni, sulla cui personale integrità e dedizione l’intero ministero avrebbe giurato, fu sottoposto a un procedimento disciplinare che si concluse con la sua cacciata dai ranghi della diplomazia. Non era mai avvenuto, e tanto meno per una negligenza nei controlli, per di più in un incarico e un territorio estremamente ardui come il Kosovo del Dopoguerra civile. Dopo di allora, ben due sentenze del Tar del Lazio hanno dato ragione a Giffoni e ordinato all’Amministrazione di reintegrarlo pienamente nel servizio diplomatico, ma ogni volta il ministero ha accanitamente rifiutato e ricorso, e l’esecuzione è ora sospesa dal Consiglio di Stato. E’ stato un caso di giustizia “esemplare” per linee interne, che ha rischiato già di annientare la resistenza fisica e morale di un uomo bravo, e che dà l’impressione terribile di una combinazione fra irresponsabilità e rigore. Estremi ambedue.

Di più su questi argomenti: