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NON CI RESTA CHE VINCERE

<p>La recensione del film&nbsp;di Javier Fesser, con Javier Guti&eacute;rrez, Juan Margallo, Sergio Olmo</p>

Mariarosa Mancuso
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Tre milioni di spettatori in Spagna (come i francesi, contano i biglietti venduti e non gli incassi). Vediamo quanto incassa in Italia, terra di poeti, santi, navigatori e sindaci di Matera, prossima capitale europea della cultura che si augura “di non finire come Venezia”, vietato il turismo mordi e fuggi. Terra che rimpiange le sale buie – vuoi mettere con Netflix che ti arriva in casa e se un film non ti piace puoi passare ad altro? – ma poi al cinema va pochissimo. Figuriamoci se accorre per un film con un allenatore di basket irascibile, beccato a guidare ubriaco, condannato ad allenare per 90 giorni una squadra di disabili – uno non sa allacciarsi le scarpe, un altro si blocca a metà, frase o azione che sia. Siccome sono spagnoli, quindi i film li scrivono prima di produrli e mandarli in sala, “Non ci resta che vincere” ha la sua parte di “feel good movie” (il film che all’uscita mettono di buon umore) e la sua parte di comicità vera, quindi per nulla corretta. Gli attori sono disabili veri, assortiti come neppure il miglior direttore di casting saprebbe fare. La mamma dell’allenatore gli annusa l’alito di notte, “voglio essere sicura che non bevi”.

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