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Buoni motivi per vedere Riccardo va all'inferno

<p>di Roberta Torre, con Massimo Ranieri, Sonia Bergamasco, Ivan Franek, Tommaso Ragno</p>

Mariarosa Mancuso
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Cose che ci sono piaciute del film di Roberta Torre (e che rendono la regista una grande eccezione nel monotono panorama italiano). Roberta Torre usa lo schermo del cinema – meglio grande, nel suo caso, in piccolo molte cose vanno perdute – per deliziare lo spettatore (non per mostrare le solite facce che intensamente guardano il vuoto). Lo riempie di ombrellini danzanti sotto una pioggia di lustrini. Lo riempie di corpi nudi avvolti nella plastica trasparente profilata di nero (dateci un’occhiata, voi convinti che Paolo Sorrentino abbia segnato un punto di non ritorno, con la scena in discoteca di “La grande bellezza”). Fa sfilare e ballare un plotoncino di dittatori (potrebbe essere il trailer a “Morto Stalin, se ne fa un altro”, e pazienza per il titolo cretino: il film di Armando Iannucci esce l’11 gennaio). Trucca, invecchia, imparrucca, avvolge in pizzi e velluti da crudele Regina Madre Sonia Bergamasco – il figlio Riccardo ha tentato di castrarla mozzandole l’indice destro in una barella da manicomio, invano. Il castello sta al Tiburtino Terzo, più per sentito dire che per visione diretta: o è notte, o vediamo solo le vecchie poltrone damascate e gli specchi con cornice, sullo sfondo le pareti scrostate, i teschietti usati come magneti da frigo (sulla corona, ossa e pietre preziose). Fin qui si appaga l’occhio. Per l’orecchio, ci sono le musiche e le parole di Mauro Pagani, d’après William Shakespeare: Riccardo è il deforme Riccardo III, obbligatorio “L’inverno del nostro scontento” (reso cantabile con sapienza e ironia). Entra Massimo Ranieri: rapato a zero, occhialini, tutore che gli blocca una gamba, tutto vestito in pelle nera con cappottone da Nosferatu, ha cambiato perfino la voce, lontanissima da Sanremo e dintorni. E a proposito di orecchie: nei sotterranei del castello ci sono i freaks che ascoltano e registrano, come vecchi strumenti come magnetofono a nastro, quel che accade al piano di sopra. Immaginazione, visionarietà, nessuna paura di vedersela con Shakespeare (che a sua volta aveva lavorato su storie già esistenti). Magari non per tutti – il musical ancora spaventa. Ma è uno scatenato divertimento.

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