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Magnifica Lucia

La magia dell’opera alla Scala con la voce di Lisette Oropesa e la direzione di Chailly

Alberto Mattioli

Fino al 5 maggio il melodramma di Gaetano Donizetti al teatro milanese. Un’attenzione ai dettagli e la calibratura perfetta di stacchi di tempo e pesi orchestrali contribuiscono a ricreare l’atmosfera notturna e romantica originaria

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Questa nuova attesissima Lucia di Lammermoor della Scala è soprattutto la Lucia di Riccardo Chailly. Anche di Donizetti, certo, perché la si esegue integrale, in edizione critica e, nella scena della pazzia, con l’armonica a bicchieri e senza la famigerata cadenza della Marchesi, che è come mettere la panna nella carbonara. Però sono scelte che ormai si fanno ovunque, e anche a Ossobuco di sotto si ripristinano il duetto della torre e l’aria di Raimondo (però, vado a orecchio e potrei sbagliare: nell’originale il duetto fra la donna e il baritono non sarebbe scritto un tono sopra?). Ma insomma, a parte le questioni testuali che hanno fagocitato la vigilia, la direzione di Chailly è splendida in sé, per l’attenzione ai dettagli, la calibratura perfetta di stacchi di tempo e pesi orchestrali, l’elastica morbidezza degli accompagnamenti e soprattutto certi preludi strumentali che definiscono subito, gotici e misteriosi, le atmosfere notturne della prima vera opera romantica italiana. Si sa che i grandi direttori hanno frequentato poco Lucia e quelli che l’hanno fatto, come Karajan o Abbado, non l’hanno incisa in studio: questa di Chailly diventa la direzione di riferimento. D’ora in poi, chi blatera di un Dozzinetti rozzo o mediocre orchestratore lo fa a suo rischio e pericolo, soprattutto di rendersi ridicolo. Orchestra e Coro superlativi, e confesso che a “Fûr le nozze a lei funeste” è pure scappata la furtiva lagrimuccia, che volete, ognuno ha i suoi guilty pleasure. Perché poi Chailly non venga mai alla ribalta da solo a prendersi gli applausi, resta un mistero.

 

La direzione si sposa alla perfezione con le caratteristiche della protagonista, Lisette Oropesa, la cui perfezione strumentale nel canto (i lunghissimi trilli della cavatina, me-ra-vi-glio-si!) si accompagna a un’interprete di prim’ordine. Non è una Lucia tragicissima tipo Callas o metafisica alla Sutherland, ma una giovane “normale” che, schiacciata da vicende più grandi di lei, si rifugia in un mondo parallelo. Avrebbe bisogno di un’altra regia o almeno di una regia vera, ma riesce lo stesso a definire il personaggio, e a farlo in maniera personale. Piaccia o non piaccia, l’opera italiana si fa con i cantanti. Ed è grazie ad artisti così che si rinnova la magia: duemila persone con il fiato sospeso e il cuore in gola davanti a una ragazza di New Orleans con un vestito bianco macchiato di sangue che invoca un innamorato che non c’è. Al suo fianco, Juan Diego Flórez canta con poco volume e tecnica impeccabile un Edgardo che resta improbabile per tutta l’opera fino all’ultima aria, eseguita molto bene e, finalmente, con il giusto abbandono. Oggi Flórez è un tenorissimo in cerca di repertorio: temo però che non sia questo. Poi ci sono un baritono solido e un po’ rozzo, Boris Pinkhasovich, quel manuale ambulante di canto che è Michele Pertusi e un ottimo sposino, Leonardo Cortellazzi.

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E qui finisce la festa. Perché lo spettacolo è affidato a una delle solite vecchie glorie che l’attuale gestione della Scala fa riemergere dal passato, “revenants” li avrebbe chiamati Vittorio Emanuele III. Per la verità è difficile parlare della regia di Yannis Kokkos perché non c’è, rimpiazzata da tableaux vivants nemmeno troppo belli da vedere. Di drammaturgia, ovviamente, non si parla nemmeno. Poi chi sa recitare lo fa, come l’Oropesa; chi non sa, come Flórez, passa tutta la sera ad aprire e chiudere le braccia coma un vigile urbano. Insomma, uno spettacolo che sta fra la fuffa e la muffa (uffa!) e che sarebbe considerato un po’ vecchiotto anche a Ossobuco di sopra. Alla fine, è stato sommerso di buuu! bipartisan: dai progressisti perché vecchio e dai reazionari perché finto nuovo, poiché tutti sono vestiti non da scozzesi sulle etichette dei whisky ma nei biasimati cappottoni (i costumi dello stesso Kokkos sono comunque la cosa migliore). Grandissimo successo per tutti gli altri, in una Scala straripante di pubblico. Nel complesso, direi da non perdere: si replica fino al 5 maggio.

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