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Bentornato, boss

Bruce Springsteen in concerto riesce ancora a portarci all’estate del 1984

Marco Ballestracci

Il Boss a Barcellona dà il via al nuovo tour. Non importa come si giudicano i suoi ultimi album, su un palco è sempre capace di fermare il tempo

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Ebbene, il 28 aprile 2023, a Barcellona, inizierà la tournée europea di Bruce Springsteen. Non è una cosa di poco conto se ci si basa su un’intervista, o piuttosto su una chiacchierata davanti a una tazza di caffè (tutto in tivù adesso assomiglia alle “Chiacchiere al Focolare” di Franklin Delano Roosevelt), che Springsteen ha concesso a Seth Meyers in un Weekend Update del Saturday Night Live: “In Europa ci sono i due terzi dei fan mondiali della E Street Band, che vuol dire che sono molti di più di quelli che ci sono in America. Inoltre non posso nascondere che gli europei sono molto più attenti e coinvolti nella musica che facciamo rispetto a ciò che succede negli Stati Uniti”. Insomma, essere abitanti del Vecchio Continente, almeno per quanto riguarda il culto di Bruce Springsteen, è una bella responsabilità. D’altro canto, chiunque sia un fan dell’artista americano sa che adesso per le strade italiane serpeggiano frasi di questo tipo: “Guarda che ho già preso il biglietto per il concerto del Boss a Ferrara e mi sa che ne sono rimasti pochi”, oppure “Gesù mio. Sono già tutti esauriti, mi tocca andare fuori dal concerto e sperare che i bagarini non mi tirino una fregatura!”. Insomma, tutte e tre le date italiane (18 e 21 maggio a Ferrara e Roma, 25 luglio all’Autodromo di Monza) sono già vendute.

 

Anche perché, lo sanno anche i bambini, il culto di Springsteen è strettamente legato agli show dal vivo. Sembra incredibile, ma s’incontrano ancora persone frastornate dal mitologico concerto del 21 giugno 1985 a San Siro, la sua prima esibizione in Italia: appassionati ai quali, a distanza di trentotto anni, s’inumidiscono ancora gli occhi ripensando al medley finale: “Twist And Shout” / “Do You Love Me” / “Rockin’ All Over The World”. Sino a quel momento delle gesta sul palco di Springsteen s’era solo sentito narrare da chi l’11 aprile del 1981 aveva assistito al concerto all’Hallenstadion di Zurigo, ed era tornato altrettanto frastornato dalla trasferta in Svizzera, raccontando frammenti dello show che avevano lasciato a bocca spalancata gli interlocutori. Anche se, in realtà, questi pionieri del culto non avevano moltissimo a che fare coi 65.000 spettatori di San Siro, fiondati allo stadio per via del successo intergalattico del disco “Born In The Usa”, uscito l’anno prima. Comunque sia, fan della prima ora o travolti dall’implacabile uragano di “Born In The Usa”, tutti il 21 giugno 1985 compresero meglio di qualsiasi esempio ciò che John Landau aveva scritto sul settimanale The Real Paper di Boston undici anni prima (esattamente il 22 maggio 1974), quando il successo per Springsteen appariva solo una lontanissima e inafferrabile chimera: “Ma oggi voglio scrivere di qualcuno in modo completamente diverso, lasciando perdere tutte le precauzioni. Giovedì scorso al teatro di Harvard Square (a Cambridge, nel Massachusetts) mi sono gettato alle spalle il rock’n’roll del passato. Invece ho visto qualcos’altro: ho visto il futuro del rock’n’roll e il suo nome è Bruce Springsteen. Così in una notte in cui desideravo sentirmi giovane, quel ragazzo mi ha fatto sentire come se stessi ascoltando la musica per la prima volta”.

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Ecco, queste righe sono tra i contributi giornalistici più importanti della storia del rock’n’roll e hanno mantenuto la loro validità sino a oggi: nel 2023. L’hanno conservata non tanto per la parte dell’articolo che profetizzava che Springsteen sarebbe stato il futuro di codesta musica, perché quel futuro è ormai diventato il passato, quanto per quel “così in una notte in cui desideravo sentirmi giovane, quel ragazzo mi ha fatto sentire come se stessi ascoltando la musica per la prima volta”. Questa è l’essenza di tutte le ultime tournée di Springsteen: la capacità di riportare almeno per un paio di giornate gli spettatori d’un suo concerto – che è il tempo che ci vuole per la preparazione, il viaggio d’andata, lo spettacolo e il viaggio di ritorno – all’estate del 1984, quando uscì l’ellepì “Born In The Usa” e per la prima volta ascoltarono “No Surrender” che, guarda caso, è la canzone che apre i concerti dello “Springsteen and E Street Band 2023 Tour”. Proprio dentro a quel brano c’è un verso che è diventato un inno per chi ama un certo tipo di musica: “Abbiamo imparato molte più cose da una canzone di tre minuti di quanto ci hanno insegnato a scuola”, che è poi la versione springsteeniana d’un pensiero wimwendersiano: “Senza rock’n’roll niente sogni. Senza sogni niente coraggio. Senza coraggio nessuna azione”, anche se non so quale delle due ispirazioni sia stata partorita per prima. Così, alla fine, ogni esibizione di Springsteen riporta a un tempo precedente, che, senza dubbio, era migliore di quello che si sta vivendo, ma forse solo perché si era più giovani. 

   

In realtà che i tempi siano molto cambiati lo si capisce immediatamente, perché la musica dentro all’automobile che percorre la strada verso il luogo del concerto ora viene diffusa da un dispositivo bluetooth. Ciò significa che dal 1984 si è passati dalle musicassette, al cd (che già pareva un cambiamento epocale), a qualcosa d’inesistente che non si capisce di preciso come faccia a diffondere della musica in un ambiente. Ma poi c’è qualcosa di molto più profondo rispetto  al cambiamento dei semplici supporti musicali. Qualcosa che si potrebbe definire “strutturale”. Gli springsteeniani di ferro ricorderanno senza dubbio la reazione coram populo di fronte al tentativo di Ronald Reagan di appropriarsi del senso della canzone “Born In The Usa”, che il presidente aveva definito un “grande anthem americano”. In quel frangente ci furono schiere di persone che, come poterono vista l’inesistenza dei social, fecero giungere il loro biasimo alla Casa Bianca replicando: “Ronnie, guarda che il verso ‘Avevo un fratello a Khe Sanh che combatteva i Vietcong / Loro sono ancora là, mentre lui non c’è più’ racconta una storia differente da quella che tu starnazzi in giro”. 

   

Invece oggi il rock’n’roll, almeno quello di un certo fatturato, non viaggia più discosto dall’establishment. Allora, in un tempo che fu, magari simpatizzava per i democratici o i repubblicani, ma si manteneva al centro d’una carreggiata nettamente differente, mentre ora non è più così. Adesso è proprio seduto al medesimo tavolo dell’establishment e durante il party è evidente lo scambio vicendevole di ammiccamenti e sorrisi d’intesa. Da questo punto di vista i concerti del Kennedy Center Honors organizzati da Barack Obama sono stati degli esempi clamorosi. E’ stato quasi traumatico osservare quelle star un tempo così tanto vicine alla dannazione eterna, infiocchettate nei tuxedo e nell’haute couture, con tanto di collare e onorificenza pendenti sul petto, sorridenti e gratificate dall’essere sedute accanto al presidente degli Stati Uniti d’America e alla first lady che schioccano le dita, battono il piede e, di tanto in tanto, chiudono gli occhi facendosi trasportare dal groove della canzone. A vedere quelle immagini viene quasi da mettersi a lacrimare dal rimpianto pensando all’improvviso incontro alla Casa Bianca tra Elvis Presley e Richard Nixon, il 21 dicembre del 1970. In quell’occasione il cantante chiese di diventare agente federale per la sezione narcotici perché, testuali parole: “Ho parlato con il vice presidente Agnew a Palm Springs tre settimane fa e ho espresso la mia preoccupazione per il nostro paese. La cultura della droga, gli hippies, l’Sds (Students For A Democratic Society), le Black Panthers non mi considerano come un loro nemico o, come lo definiscono loro, ‘il Sistema’. Io lo definisco America e lo amo. Signor presidente, io posso e voglio essere di qualsiasi utilità per servire il paese. Pertanto non desidero che mi venga dato un titolo o una carica ufficiale. Potrei e farei molto meglio se fossi un agente federale e aiuterò facendo le cose a modo mio, attraverso la comunicazione con le persone di tutte le età”. La ragione per cui viene da piangere rammentando quell’incontro è che risulta naturale immaginare, in separata sede, la reazione di Nixon: “Ma cosa accidenti vuole da me questo svitato vestito come un pagliaccio? Che faccia il cantante e non rompa le scatole. Anche se dice di avermi votato e d’ammirarmi così tanto, che non s’immischi con i miei metodi per mantenere l’ordine pubblico. Che se ne torni a Memphis in mezzo ai negri del Mississippi”.

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Era codesto disprezzo che rendeva così rigoglioso il rock’n’roll, che era scevro dal dover rendere di pubblico dominio, per esempio, che Bruce Springsteen ha venduto l’intero catalogo delle sue canzoni alla Sony Music Entertainement per 550 milioni di dollari. Tuttavia queste considerazioni trascendono, evidentemente, dal reale valore dei recenti album dell’artista. E’ evidente che la stragrande maggioranza dei fan accorrerà ai concerti augurandosi che le canzoni di “Only The Strong Survive”, l’ultimo album di Springsteen composto di sole cover di rhythm and blues, non facciano parte della scaletta, così come quelle di molti album precedenti, perché ognuno ha nel proprio intimo la cognizione dell’ultimo disco di Springsteen che è valso la pena acquistare. Per chi scrive, per esempio, l’ultimo lavoro davvero entusiasmante è stato “Lucky Town” del 1992 e l’ultima canzone è stata “Streets Of Philadelphia” uscita due anni più tardi. Ma, come si diceva, in fondo questo non è importante. Ciò che conta è quel vecchio frammento di settimanale bostoniano che continua a riportare: “Così in una notte in cui desideravo sentirmi giovane, quel ragazzo mi ha fatto sentire come se stessi ascoltando la musica per la prima volta”. E’ questo ciò che tutti continuano a desiderare da un concerto di Bruce Springsteen: non contano la qualità dei suoi ultimi album, il fatto che le sue canzoni valgano all’incanto mezzo miliardo di dollari e che sul palco ci sia una processione di musicisti perché l’energia da profondere negli ancora lunghissimi live-show è molto superiore alle capacità fisiche dei  membri originali della band (Clarence “Big Man” Clemons e Danny Federici purtroppo non sono più al mondo), tutti ormai sopra la settantina. I concerti di Springsteen consentono una lunga sospensione del tempo che, per forza di cose, scorre sempre più vicino al limite e permettono di coltivare per qualche ora le medesime illusioni del 1985, quando si era ancora giovanotti pieni di prospettive per il futuro.

   

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Ma non si creda che questo giovi solo agli appassionati: ai fan. Sempre nel corso dell’intervista con Seth Meyers è capitata tra le mani del conduttore del programma una foto di Springsteen insieme al figlio Sam: entrambi mostrano i bicipiti scoperti. Meyers ha commentato: “Beh, direi che in una sfida a braccio di ferro il risultato non è per nulla scontato”. Springsteen ha sorriso soddisfatto. “Posso dire che non è per niente male per un settantaduenne”. Il pubblico ha confermato applaudendo. Perché anche una rockstar ha bisogno di sentirsi dire che, in fondo, va tutto bene, così come accadeva nella sua remotissima canzone “Incident on 57th Street”: “Buonanotte. E’ tutto a posto, Jane. Ci vediamo domani sera al Lover’s Lane”.

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