Sanremo 2023
A Sanremo Chiara Ferragni ha unito la tv e la dopo-tv. E gli ascolti premiano la scelta
La prima serata del Festival fa quasi 11 milioni di spettatori e oltre 62 per cento di share, roba mai vista. La musica però delude, per le canzoni più che per i cantanti in gara: c'era la voglia ma non la materia
Con una partenza gravemente imbarazzata dalla storia (terremoto in Turchia/Siria, Zelensky sì/no) e dunque con qualche esitante entusiasmo, è partita la kermesse, a cui il comitato dei furbi ha provveduto un provvidenziale ombrello dell’ultimo minuto, Mattarella+Benigni, roba che non si discute-si ama, si ascolta con attenzione e poi ci si sente tutti più buoni. E vai ancora a dire che gli agenti non servono a niente, che sono vampiri, qui Presta ha salvato la baracca di Amadeus, l’ha confortata e lui gli ha dato ascolto, piuttosto che star dietro alle beghe della Rai sull’opportunità di fare questo o quello, perché è sano che il festival sia la tribuna delle opportunità, non delle opportunità mancate, e se Zelensky lo riduci a un messaggio perdi l’evento e la questione non è essere a tutti i costi equilibrati e invisibili, ma svegliare qualche coscienza e soprattutto tenere svegli gli ascoltatori, che il tutto è prodotto per quello.
Per un paio d’ore la puntata d’esordio del Festival è scivolata a bassa velocità, vivendo delle simpatiche goffaggini di Morandi, delle marchette che ci fanno alzare gli occhi al cielo (il divertimento è anche quello), della presentazione dei nuovi spot negli intermezzi che, almeno la prima sera, sono la novità e il giochino si va raffinando in stile-Superbowl, nel senso che gli addetti ormai hanno affinato la tecnica degli “spot da festival” e ce n’è da vedere (la palma del migliore va a Paramount+ per l’idea elementare della riscoperta dell’annunciatrice del tempo che fu, di un’incollatura su Ita che sfrutta lo splendore di “Vivo”, nostra modesta proposta di nuovo inno nazionale, firmato da Andrea Laszlo De Simone).
Invece delusione spalmata per le canzoni, più che per i cantanti in gara, nel senso che c’era la voglia ma non la materia, magari c’era la capacità ma latitava il carisma. Difficile prevedere che i debuttanti si rivelassero così tanto debuttanti, fatta eccezione per Gianmaria, che ha un guizzo in più e un suo status losco e un po’ perverso che lo distingue, gli altri (Olly, Colla Zio ancora oratoriali, a dir poco non pronti per la “splendida cornice”). Soprattutto deludente che timori, pigrizia e dominanza del mainstream abbiano spinto a optare la maggioranza dei team – artisti + produttori – per scelte conservative, banali e di consenso, canzoni sempre un po’ melo, indecise, preoccupate d’essere serie, e vale per Oxa, Mengoni (candidatura alla vittoria finale) e la stessa Elodie, sempre soubrette. È un peccato che non si lavori con più di impegno e visione nel cercare di rendere quei cinque minuti sul palco un piccolo evento a sé, una performance che provi a essere memorabile e non solo la tremebonda partecipazione a un concorso. Non a caso l’apparizione di Mahmood e Blanco, che hanno trionfalmente rifatto “Brividi”, è stato l’unico momento artistico della prima parte della serata, il resto è stato un festival dell’occasione persa, sebbene Ultimo e Grignani ci abbiano messo una voglia confusa, e che due uscite vadano salvate sopra alle altre, ovvero il “Mare di Guai”, cantato con l’innocenza che Ariete da Anzio sa ancora conservare, vestita a festa, capace d’esaltare il suo sentirsi eternamente fuori posto, e poi l’inatteso dramma di coppia inscenato dai due Coma Cose ne “L’addio”, in cui hanno cantato e mimato il fatto che la loro relazione stava andando a ramengo e che condividere il camerino standosi sulle balle sia un ben meschino destino d’artista. Detto questo, sorvolando sulla surreale riapparizione dei Pooh che aveva bagliori da televisione comunista pre-Muro, resta il succo dell’interminabile show, premiato da dati d’ascolto surreali (quasi 11 milioni di spettatori e oltre 62 per cento di share, roba mai vista, a dimostrazione che Sanremo è Sanremo e lo si guarda perché sennò tanto vale essere italiani, ovvero prima del giudizio, della critica, dello scazzo o dell’emozione. Condizione su cui riflettere).
Il succo è stata la partecipazione di Chiara Ferragni: non tanto per ciò che ha diligentemente interpretato nel ruolo di co-co-conduttrice, nemmeno per la grazia con cui si è presentata, o per la sbalorditiva eleganza dei suoi abiti (Dior) e della nonchalance nel portarli senza indossarli. Neppure per l’assolo che si è concessa, leggendo una emozionata, verace lettera scritta alla se stessa bambina, per dirle che tutto è andato bene e che il coraggio non deve mai mancare, qualsiasi sia il destino. Lo scoop è stato il gesto stesso di Chiara di esserci, congiungendo così, finalmente e con naturalezza estrema, due mondi che non erano mai veramente arrivati a toccarsi, ossia rendendo fattuale il contatto tra la tv e la dopo-tv, tra il passato che resiste e arranca e il presente che fatica, ma tira la volata. Scendendo dalla rete e entrando nel teleschermo, Ferragni ha inscenato una pacificante comunione e l’ha fatto con l’atteggiamento bonario e condiscendente di chi ha vinto, lo sa, ma non infierisce, perché alla fine dobbiamo andare avanti tutti insieme. Il bello è che, dopo un’ora su quel palco, Chiara sembrava averci abitato da sempre, soccorreva i colleghi, assumeva il controllo della situazione, non si scomponeva neppure quando Blanco ci ha ricordato che se non sai cosa fare, fai il punk e sfascia le fioriere della città dei fiori, qualcosa succederà e si ricorderanno di te. Quindi, tra i numeri di un successo senza precedenti, il debutto della migliore icona d’italianità incarnata da una insalata bionda, provinciale super-smart e la latitanza di momenti canterini memorabili, la Grande Macchina si è messa in moto. Difficile replicare stasera agli stessi livelli. Ma si può sempre contare sul potere degli imprevisti.
Contrasti e ambizioni