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il foglio del weekend

La nota perfetta di Van Morrison

Marco Ballestracci

Con il disco “Astral Weeks”, il cantautore ha toccato una vetta. Il risultato di mesi di lavoro? No, fu quasi tutto improvvisato

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La frase “è evidente che un artista cerchi consapevolmente la perfezione” appare lapalissiana. Ci sono molte evidenze che la rendono tale e almeno di un paio vale la pena darne conto. I Pink Floyd, a esempio, lavorarono per molto tempo al perfezionamento di “The Dark Side of the Moon” che, c’è poco da discutere, è il momento più sideralmente alto della loro carriera. Si possono incontrare frammenti di questo disco leggendario sparsi qua e là nelle precedenti incisioni della band inglese o dei singoli membri del gruppo, soprattutto nelle colonne sonore che venivano loro affidate. Il disco venne testato dal vivo prima ancora che la band varcasse la soglia degli studi di Abbey Road per inciderlo, così da comprendere, grazie alla risposta del pubblico, cosa potesse essere ancora migliorato. E poi, una volta apportate le modifiche, testato ancora in esibizioni dal vivo molto circoscritte, solo per addetti ai lavori. Così si può dire che il concepimento e la realizzazione di “The Dark Side of the Moon”, conosciuto in Italia anche coll’appellativo di “Sogno degli Audiofili Maniaci”, siano in realtà un lunghissimo percorso iniziato persino prima della tournée di “Meddle” e del celebre “Live At Pompei” e conclusosi con una conferenza stampa (con il missaggio non ancora completato) tre giorni prima dell’uscita del disco in America. Il primo marzo del 1973.

 

Inoltre, per descrivere un medesimo cammino lungo il sentiero della perfezione, c’è anche uno splendido libro scritto da Katie Hafner, talmente splendido che Einaudi non l’ha ripubblicato in Italia ed è clamorosamente fuori catalogo, che s’intitola “Glenn Gould e la ricerca del pianoforte perfetto”, che racconta lo spasmodico inseguimento da parte di Glenn Gould della sonorità di pianoforte che meglio interpretava la sua idea di musica. Il libro parla diffusamente del casuale, ma fatidico incontro, ai magazzini Eaton’s di Toronto, del pianista col leggendario Steinway CD 318 e del lavoro, altrettanto febbrile, svolto da Gould e da Verne Edquist, l’accordatore, per ottenere il  timbro che l’artista riteneva perfetto per eseguire soprattutto (anche se non solo) Johann Sebastian Bach.

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Insomma, sono due tra i tanti esempi che spiegano il fervido percorso per ottenere un preciso e splendido risultato artistico.

 

Tuttavia, in realtà, le cose non vanno sempre così. Alle volte accade che incorruttibili pietre miliari della musica moderna, che paiono essere frutto di interminabili riflessioni artistiche, siano state incise, se non proprio per caso, quasi inconsapevolmente.

 

“Nessuna preparazione preliminare, nessuna riunione. Non avevo mai sentito parlare di Van Morrison. Io facevo riferimento a Lewis Merenstein che m’aveva dato l’incarico di dirigere il lavoro, mentre lui faceva riferimento alla Warner che aveva da poco messo sotto contratto il cantante. Per me Morrison era solo il tipo che cantava dentro alla cabina. Ricordo che alle volte lo guardavo ed era circondato da una nuvola di fumo, ma non avevo tempo d’informarmi di che tipo di fumo si trattasse. Merenstein m’aveva chiesto di mettere insieme un po’ di musicisti, per ottenere più o meno una band di jazz acustico apposta per accompagnare questo tizio che non conoscevo. Al contrario conoscevo bene Lewis e sapevo che cosa si aspettava da me. Così chiamai Jay Berliner alla chitarra, che aveva suonato con Mingus e che era famoso per suonare qualsiasi tipo di musica. Poi ho chiamato Connie Kay del Modern Jazz Quartet che, quando suonavamo insieme, mi dava una gran sicurezza. Per quanto mi riguardava la questione finiva lì e Van Morrison con noi c’è entrato davvero poco. Se non ricordo male non ci siamo neppure presentati. Lui stava nella sua cabina a cantare e noi nello studio suonavamo cercando di stargli dietro. Alla fine quello che è venuto fuori nel disco era tutto nella testa di Merenstein e, attraverso le sue spiegazioni, seguiva la mia linea di basso. Erano questi gli spiriti-guida: la sua idea del disco e la mia linea di basso. Tutto qui. D’altro canto siamo stati in studio un paio di giorni, non di più. Mica c’era il tempo di bere il tè insieme e ragionare di questo e di quello”.

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E’ incredibile, ma la creazione di uno dei grandi capolavori della musica, una volta tanto non etichettabile in un genere preciso, “Astral Weeks” di Van Morrison, è ricordata esattamente in questi termini dal capo della session di registrazione: il contrabbassista di Chicago, Richard Davis. “Alcuni restano molto delusi quando racconto come è stato inciso ‘Astral Weeks’. Di solito dicono: ‘Dovete aver discusso un sacco per ottenere quell’atmosfera magica che c’è nel disco’. A dire la verità Morrison non ci ha dato nessun suggerimento su come suonare e neppure su che stile adottare”. Così pure i giornalisti più scafati restano a bocca aperta ad ascoltare, per esempio, le dichiarazioni di Connie Kay: “Beh, io sono andato a chiedere a Morrison come voleva che suonassi e lui m’ha risposto di suonare quello che mi veniva. Più o meno siamo andati lì e abbiamo improvvisato dall’inizio alla fine”.

 

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Tuttavia nulla accade per caso, anche se le dichiarazioni dei due componenti più importanti della band di “Astral Weeks” paiono far propendere per la casualità della sessione. Perché, alla fine, si finisce sempre per ritornare ai concetti che aleggiano sempiterni dietro alla musica, come suggeriscono, per esempio, matematici come Giorgio Bolondi o Benedetto Scimemi, definendoli: “Il complesso gioco di rapporti di frequenze e tempi che si descrive in termini matematici e che ha un legame stretto con la fisiologia dell’orecchio e verosimilmente anche con i processi cognitivi legati all’ascolto della musica”. Certo codesti concetti si applicano volentieri soprattutto ai canoni bachiani, danno molta più soddisfazione intellettuale, ma pure la musica leggera non sfugge alle leggi geometriche, anche se ivi applicate non danno il medesimo ringalluzzimento e non si manifestano con formule matematiche complesse, ma col semplice discernimento del “buon padre di famiglia”.

        

“Accettata l’offerta della Warner ho cominciato ad ascoltare il vecchio materiale inciso da Van e dai Them (la prima band di Van Morrison). Poi sono andato a Boston per ascoltare un paio di concerti acustici di Van. Aveva delle buone canzoni e, in fondo, con la chitarra acustica se la cavava, così quando siamo andati in studio ha suonato esattamente come mi aspettavo. Tuttavia il grosso della questione dipendeva dai musicisti che l’accompagnavano e così ho scelto dei musicisti di jazz che stimavo molto. Se si ascolta bene il disco, tutti i brani sono guidati in primo luogo dal contrabbasso di Richard e poi dalla voce di Van. Ho scelto Richard perché sapevo che avrebbe inventato di tutto per supportare le linee del canto, sia dal punto di vista vocale che acustico. Sapevo anche che Jay Berliner poteva cucire quelle bellissime risposte alla voce. Certo, poi io e Brooks Arthur, l’ingegnere del suono, abbiamo fatto un gran lavoro di editing e di missaggio, ma sono solo questioni tecniche. Dal punto di vista artistico ‘Astral Weeks’, in fondo, è tutto qui: nessuna prova prima dell’incisione e i musicisti giusti al posto giusto”.

 

Lewis Merenstein è disarmante, tanto quanto Cristoforo Colombo quando picchiettò l’uovo e lo fece rimanere in equilibrio sulla tavola del cardinal Pedro González de Mendoza.

 

Eppure il metodo d’incisione di “Astral Weeks” era e continua a essere geniale.

     

        

Lo era perché le due canzoni che preesistevano alla registrazione – “Beside You” e “Madame George”, che Van Morrison aveva già inciso per la Bang Records – suonano, che Dio mi perdoni, un po’ come sciocchezzuole rispetto alle versioni che Merenstein progettò per “Astral Weeks”. Continua a esserlo perché la reinterpretazione che diede Van Morrison quarant’anni dopo l’uscita, nel 2009, nei concerti all’Hollywood Bowl di Los Angeles, non aggiungono nulla all’incisione di quarant’anni prima, anzi tolgono gran parte di quell’aura metafisica, scaturita, in fondo, da soli quattro strumenti e pochissimo altro. Furono proprio i “soli quattro strumenti e pochissimo altro” di “Astral Weeks” che esaltarono due dei più grandi critici che, ancora oggi, indicano la strada a chi tenta di scrivere di musica: Greil Marcus e Lester Bangs.

  

Alla fine d’ogni cosa si può perciò dire che Van Morrison non toccò mai più i vertici raggiunti nei due giorni guasconi di registrazione di “Astral Weeks”.

 

Tuttavia è davvero ardua questa affermazione, tenuto conto che, come tutti sanno, la prima facciata di “Moondance” è piuttosto universalmente considerata “la più bella facciata A della storia del rock’n’roll”, mentre, ma molto meno universalmente, la facciata B di “Into The Music” potrebbe esserne ritenuta il completamento. Inoltre Van Morrison è pure l’autore di “Listen To The Lion”, “Almost Indipendence Day” e “Summertime in England”. Eppure, nonostante questo, “Astral Weeks” continua a essere un’altra cosa. Incredibilmente più alta.

 

“Van Morrison ha creato un album unico e senza tempo. Il limite del blues che caratterizzava tutti i suoi dischi precedenti è stato brillantemente superato. Van canta dentro e attorno a quella che potrebbe essere una moderna orchestra da camera, ma non rimanendo sopra alla musica, ma entrandone nel profondo dello spirito: uno spirito di rischio e d’avventura. Questo è un nuovo territorio da esplorare, un nuovo genere di musica d’ascolto, dal momento che Larry Fallon (l’arrangiatore) abbandona le comode strutture di melodia, ritmo e tempo convenzionali nel tentativo di sostenere gli stati d’animo musicali di Van Morrison”. E poi, alla fine della recensione, l’inesorabile colpo finale. “‘Astral Weeks’ è un album serio e anche profondamente intellettuale. Non nel senso che sia richiesta chissà quale intelligenza per capirlo o farselo piacere. Piuttosto è intellettuale nello stesso senso in cui la stanza di Nathaniel Hawthorne, riempita dal chiarore della luna, era un luogo e un momento che consentivano a intelletto ed emozioni di convivere”.

 

Credo che codesta recensione di Greil Marcus su Rolling Stone del primo marzo 1969 significasse, a spanne, che “Astral Weeks” poteva tranquillamente stare negli scaffali degli appassionati a fianco di “Kind Of Blue” di Miles Davis e che, se la proiettiamo nel futuro, ora può tranquillamente appoggiarsi all’involucro de “L’Arte della Fuga” suonata dall’Emerson String Quartet. 

 

Ma, sia come sia, poche settimane fa, durante una cena, ho raccontato parte di questa storia a un’organizzatrice di spettacoli emiliana. L’ho fatto perché m’aveva raccontato d’un suo flirt finito non benissimo con un ragazzo bolognese che assomigliava in modo incredibile a Van Morrison (del 1978, non di adesso). Allora, per curarsi omeopaticamente, aveva ascoltato l’intera discografia del cantante irlandese. “Dischi bellissimi, ma poi quando sono arrivata ad ‘Astral Weeks’ sono andata proprio fuori di testa. E’ una musica incredibile, che sembra venir fuori dal nulla e stare in equilibrio sul nulla. Che razza di capolavoro ha creato  Van Morrison con ‘Astral Weeks’?”. Per darmi l’aria di grande esperto le ho allora raccontato di quanto, in realtà, fosse poco intervenuto nella resa musicale del disco e di quanto invece avesse contato il lavoro del produttore Lewis Merenstein. Ho goduto solo qualche momento di codesta soddisfazione, perché lei ha subito replicato: “Beh, è più o meno quello che ha fatto Rick Rubin con Johnny Cash. Certo Cash è un grande artista, ma non ci fosse stato Rubin che lo incanalava per bene, non avremmo mai avuto i capolavori dell’American Records. Mi pare sia una cosa normale”.

 

Allora ho fatto silenzio. Un religioso silenzio, proprio come quando ascolto “Astral Weeks” oppure quando sono “toccato”. In francese: touché!

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