Il viaggio

L'invincibile Patti Smith. La poetessa del rock è di nuovo in tour in Italia

Marco Ballestracci

Il suo palco non è un teatro di posa, ma vita vera. Gli errori che si trasformano in trionfo. Con il suo quartetto, terrà quattro concerti (Pompei, Roma, Stresa e Cervia) alla fine del mese di luglio e chi ha assistito agli show del Paradiso di Amsterdam assicura che gli spettacoli sono ancora profondissimi

Ero troppo giovane quando Patti Smith arrivò in Italia per la tournée dell’album “Wave”. Poco male in realtà, perché l’eco dei due concerti del 9 e 10 settembre 1979 a Bologna e Firenze continuò a risuonare per parecchio tempo nei discorsi di chi s’era accostato, per decine di motivi diversi, a ciò che ancora oggi chiamiamo rock’n’roll. Però, beninteso non si doveva sapere, circolava tra gli appassionati una musicassetta che era stata registrata durante lo show allo Stadio Comunale di Firenze e, per certi miracoli che non si riescono ancora a spiegare, quel nastro tagliato durante l’esecuzione di “Revenge”, perché il bootlegger (cioè lo spettatore che aveva registrato di frodo il concerto) aveva proprio lì girato la cassetta e ripreso a registrare, restituiva una bella fetta della pazzesca energia di quella notte, anche se non l’avevo vissuta davvero.

 

La lunga rincorsa per ascoltare finalmente dal vivo Patti Smith terminò in un giorno di maggio del 2017, quando riuscii a raggiungerla per il suo concerto di Torino, con, nascosta da qualche parte, l’intenzione di uscire dallo spettacolo pensando: “Certo sì, un concerto da grandissima professionista, ma la Patti Smith della tournée del 1979, quella che cantava dentro alla mia cassetta, era tutt’altra roba”. Sono certo che molti erano giunti all’Auditorium della Rai con, sotto sotto, la medesima intenzione, ma tutti gli increduli dovettero rinnegare le proprie convinzioni quando, avvicinandosi al microfono, con una semplice apertura delle braccia e brevi parole sul costante conforto degli antenati, la settantenne Patti Smith condusse la platea al silenzio più assoluto prima che il chitarrista accennasse le prime note di “Ghost Dance”. Così, in un momento, l’intero Auditorium Arturo Toscanini diventò ostaggio del carisma dell’artista e tutto si dipanò più o meno come nel video del 2019 di “People Have The Power” al Public Theater di New York City: con Patti Smith che officiava una sorta di rito laico, consacrata dai lunghi capelli bianchi e dal consueto abito scuro da austero puritano. 

 

In realtà si stava assistendo all’ennesima dimostrazione di come la musica rivoluzionaria per eccellenza, la colonna sonora che aveva accompagnato il decennio dei turbolenti anni 70, era diventata qualcosa che ora si dedicava allo spirito, non fosse altro perché chi allora aveva vent’anni adesso aveva superato i sessanta e tutta la carnalità del rock’n’roll doveva per forza mutare in qualcos’altro. Così, all’interno della sala da concerto, tutti furono finalmente consapevoli che aspettarsi che Patti Smith, come nella seconda meta degli anni 70, si girasse verso l’amplificatore e si contorcesse attorno alla chitarra elettrica per ottenere i lampi psichedelici dei larsen (che sono i sibili che talvolta emettono le casse acustiche), era una pretesa del tutto anacronistica.

 

Tuttavia la particolarissima sensibilità di certi artisti, quella che potremmo chiamare “luccicanza”, aveva fatto in modo che la cantante avesse previsto codesto mutamento già nel 1979, al termine della tournée di “Wave”, proprio quella che aveva clamorosamente toccato Bologna e Firenze, quando decise d’abbandonare il mondo musicale per quelli che, poi, si rivelarono nove anni.

Alcuni sostengono che codesta decisione proruppe con tutta la forza proprio al termine del concerto di Firenze, perché le apparve chiaro – là, nella città di Michelangelo, a cui era spiritualmente legata – quanto la fenomenologia dei grandi eventi musicali (si parlò di ottantamila spettatori allo Stadio comunale) si allontanasse dall’ideale “spirito originario” di ciò che Patti Smith considerava arte.

 

Allora si confidò con William Borroughs: “Io sento che i giovani si stanno agitando. Sento fortissima questa agitazione e mi piacerebbe seguirla per vedere dove porta. Ma si arriva a un punto, e a me è capitato adesso, nel 1979, in cui è necessario fermarsi e chiedersi ‘Che cosa sto facendo?’. Questo è un momento cruciale della mia vita. Fino adesso ho ottenuto un hit-single (‘Because The Night’), un buon successo e ho un certo numero di persone che mi stanno intorno perché rappresento un potenziale investimento artistico. Perciò proprio questo è il momento di chiedermi cosa sto facendo esattamente e, una volta capito, tentare di agire di conseguenza”.

La risposta e l’azione conseguente furono, appunto, un silenzio lungo nove anni, ma l’eco di ciò che prima era accaduto  continuò a riverberare, perché la vita e la carriera di Patti Smith erano davvero un distillato di luccicanza. Era una miscela talmente forte che ne scaturì, per esempio, il rapporto simbiotico, di sostegno reciproco, con Robert Mapplethorpe. Il legame proseguì artisticamente, dopo i cinque anni di vita in comune, dal 1967 al 1972, fino al 1988 (l’anno dopo Mapplethorpe morì di Aids) perché le più belle copertine dei dischi della cantante – “Horses”, in modo particolare “Wave” e “Dream Of Life” – in un’epoca in cui le copertine erano dei veri e propri prequel della musica contenuta nei 33 giri, erano scatti del famosissimo fotografo newyorkese. La particolarità, e forse l’equivoco, di quelle fotografie era che non si comprendeva bene se esistesse una separazione tra la musica e l’immagine e, in secondo luogo, chi fosse l’artista e chi il mezzo di propagazione dell’arte.

 

Da questo punto di vista, per molti, la celebre copertina di “Wave”, con Patti Smith vestita di bianco che regge due colombe – un’immagine di imbarazzante purezza – era la perfetta trasposizione del primo verso di “Gloria”, una delle sue canzoni più famose: “Jesus died for somebody’s sins, but not mine”. I due artisti erano carismi simbiotici che si manifestarono al massimo grado nell’epilogo della vita di Robert Mapplethorpe, perché le sue ultime parole furono rivolte proprio a Patti Smith, che s’era assentata per qualche minuto dal suo capezzale al New England Deaconess Hospital di Boston. Quando la cantante rientrò nella stanza, il fotografo riprese conoscenza giusto il tempo per dirle: “Patti, sei tornata?”, poi sprofondò nuovamente nel coma e passò oltre.

 

Questo definitivo commiato è tra l’altro l’epilogo di un libro, “Just Kids”, scritto da Patti Smith nel 2010 che vinse il National Book Award, ma, al tempo stesso, è anche il titolo d’un talk (in verità non so trasporre esattamente il significato di “talk” in italiano) che gira in questi giorni per l’Italia e che racconta del rapporto tra il fotografo e la cantante, portato sui palchi dal critico d’arte cuneese Nicolas Ballario e dal chitarrista Adriano Viterbini.
Ma, tornando ancora una volta al carisma, ogni incertezza su cosa identifichi esattamente questa parola, Patti Smith ebbe, suo malgrado, la possibilità di dimostrarlo il 10 dicembre 2016, a Stoccolma, durante la cerimonia di consegna della medaglia del Nobel per la letteratura che Bob Dylan accettò, diciamo così, per procura.

 

E’ riconosciuto come l’inizio della carriera di Patti Smith sia stato prettamente poetico. In America la si identificò spessissimo come “The Punk Poet Laureate” e in Italia decine di riviste la indicarono come “La poetessa del rock”. Così, nonostante Patti Smith ammetta che “è piuttosto incauto sostenere di essere amici di Dylan, perché è una persona estremamente riservata”, difficilmente qualcun altro poteva indossare meglio i panni d’un recalcitrante vincitore d’un Nobel con la motivazione “per aver creato nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione musicale americana”.
Proprio a causa di codesto amalgama con la poesia le canzoni di Bob Dylan sono strane. Ciò che inganna è la lunghezza delle strofe che, proprio per ragioni poetiche, proseguono anche quando ormai è indubbio che giungerà da lì a pochissimo il ritornello. Invece il ritornello non giunge affatto.

 

“A Hard Rain’s A-Gonna Fall” è uno dei prototipi di questa strana pervicacia e perciò è anche uno dei suoi brani più rappresentativi: perfetto per una pubblica acclamazione. Patti Smith aveva già più volte cantato questa canzone durante i concerti e l’ambientazione del Konserthus di Stoccolma, come sempre, era immobile ed elegante: non aveva nulla a che fare con certe arene del rock’n’roll, popolatissime di gente che conosce a menadito, come fossero parti della Torah, i testi delle canzoni di Dylan. In più, di fronte a lei, illuminate da una lampada, c’erano pure, belle grandi, le parole della canzone. Non c’era alcuna possibilità d’errore. “Ero prontissima. Avevamo fatto delle ottime prove con l’orchestra e l’arrangiamento finale con gli archi e la pedal steel mi piaceva davvero molto. In più  avevo cominciato a cantare ‘A Hard Rain’s A-Gonna Fall’ quando ero una ragazzina, che ancora andavo alla Deptford High Scholl. Ero davvero prontissima a onorare nel miglior modo quell’occasione unica. Ma sono arrivata a metà della seconda strofa, che conosco perfettamente e che, sono certa, non dimenticherei per nessun motivo al mondo e, improvvisamente, mi sono sentita  pervadere da una specie di congelamento e non ho più capito cosa stessi facendo in quel luogo e in quel momento. Ero così stordita che non ho potuto fare altro che interrompere il brano per riprenderlo poco dopo. M’è parso che l’interruzione durasse un secolo. Poi, a metà della strofa successiva, mi sono imbambolata ancora e sono riuscita a salvarmi in extremis grazie all’abilità del chitarrista che m’ha riproposto subito un bordone d’appoggio. Mi sono aggrappata lì e così sono arrivata alla fine di quei benedetti sette minuti di canzone, sentendomi del tutto sopraffatta dalla vergogna”.
In realtà, invece, l’estrema sincerità del suo “perdonatemi. Perdonatemi, sono così nervosa” rivolto alla platea prima di riprendere l’esecuzione, diede a tutti l’idea che la cantante avesse intrapreso i sei minuti e cinquantun secondi di “A Hard Rain’s A-Gonna Fall” con l’intenzione di essere Bob Dylan, ritrovandosi poi nel bel mezzo del verso “I saw a room full of men with their hammers a-bleedin” a essere solo Patti Smith.

 

Questa improvvisa ed evidentissima disillusione scioccò gli spettatori che, di colpo, si resero conto di non essere all’interno d’un teatro di posa, ma, come di tanto in tanto accade, di trovarsi alla prese con la vita reale. Così un errore si trasformò in un trionfo, con persino, al termine della canzone, lo scorrere di lacrime sulle guance di chi, tra il pubblico, si sarebbe detto ben lungi dal possedere un qualsiasi motivo per essere indotto al pianto.
Così è davvero una buona notizia sapere che in quest’anno disgraziato, durante l’estate, tutta questa sincerità e carisma incontrollati percorreranno ancora una volta l’Italia. Il quartetto di Patti Smith terrà quattro concerti (Pompei, Roma, Stresa e Cervia) alla fine del mese di luglio e chi ha assistito agli show del Paradiso di Amsterdam assicura che gli spettacoli sono stati profondissimi. “Sono stati dei gran bei concerti. Hanno fatto versioni bellissime di ‘Don’t Say Nothing’ e ‘Beneath The Southern Cross’. Hanno anche fatto una versione pazzesca di ‘Since I’ve Been Loving You’ dei Led Zeppelin”. Quando ho sentito nominare i Led Zeppelin devo aver fatto un’espressione molto particolare, così che mi sono sentito rimproverare: “Guarda che Patti Smith non fa concerti-nostalgia. Non fa degli show per dei boomer come te che sperano sempre di risentire il concerto allo Stadio Comunale di Firenze. Perché bisogna che te lo ficchi nella testa una buona volta: il 1979 è passato da 43 anni”. Saranno passati anche 43 anni, ma io quella vecchia musicassetta pirata la custodisco ancora.

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