(foto Ansa)

Sangiovanni, Tananai e gli altri. A chi piace la musica dei figli

Stefano Pistolini

“Non ci sono più i cantautori di una volta”. Sicuri? La distanza fra De Gregori e gli artisti di oggi, e il vizio della nostalgia

Francesco De Gregori e Antonello Venditti sono due anime complementari, diversamente straordinarie. Adesso che insieme attraversano l’Italia in tournée ci si trova al cospetto, nello stesso momento, di una piacevole serata e di un canzoniere impressionante. Arte vera: snocciolati uno dopo l’altro quei pezzi consegnano, in una dimensione italiana, la definizione dell’arte sotto forma di composizioni monotematiche brevi. Opere compiute, che utilizzano la lingua, la melodia e il tono musicale a uno stadio evolutivo finale, oltre il quale non è facile andare – come se il compito di una canzone, svolto in questo modo, fosse esaurito. La prova sta nel valore perenne di queste musiche, che per tutta la vita restano affianco alle persone che le hanno amate, mantenendo un imperturbabile significato.

Nella nostra storia recente un posto va dato al rapporto tra gli italiani e le canzoni che hanno segnato i tempi, descritto le mode e offerto un contributo all’edificazione della nostra cultura. Ma il discorso assume valore particolare in riferimento alla fine del Novecento, un tempo che ancora è difficile accettare sia “il secolo scorso” – concluso e distaccato da noi, a dispetto dei suoi filamenti che continuano ad avvilupparci. Con l’avvento del XXI secolo la canzone popolare italiana ha subito una metamorfosi: prima c’è stata una fase d’interregno, durata una dozzina d’anni, in cui si è navigato in un limbo, a cavallo tra la perplessità che i significati e le importanze non fossero più quelle di una volta e il tentativo di procrastinarle in presenza di copie risonanti. Poi è subentrata la catarsi, una violenta immersione dei gusti del pubblico in una fonte battesimale che aveva la forza di rinnovare, azzerare, rigenerare. O comunque modificare, poco importa se in meglio o in peggio.

La successione generazionale non è stato solo un fatto anagrafico, ma soprattutto il risultato di una liberazione, da parte degli ultimi arrivati, dai debiti di riconoscenza verso un passato ormai remoto, nonché da una galleria di modelli pescati altrove, in altri posti del mondo. Vi siete mai chiesti perché adesso le classifiche di consumi musicali nel nostro paese siano monopolizzate da prodotti nazionali, quando fino a poco tempo addietro un disco o una canzone italiana stentavano da morire ad aprirsi la strada tra frotte di mastodonti stranieri? Altresì avrete capito perché Sanremo, manifestazione-spia dei gusti orizzontali del nostro pubblico, da qualche anno si sia convertita a suoni che hanno ben poco a che spartire con la classica configurazione “all’italiana” –  melodica, convenzionale, rassicurante. E’ successo che in questo passaggio di tempo ha preso forma un nuovo genere di canzone nostrana, consumata in modi diversi dal passato. Per fare un esempio, la parola “album”, una volta pronunciata con venerazione dai nostri musicisti, oggi viene liquidata con riprovazione (e, per fare un pendant, il sogno di un impianto ad alta fedeltà come si deve è ora inesistente al di sotto dei 40 anni d’età). La musica vive negli smartphone e alla contemplazione e all’ammirazione dell’opera di un’artista si è sostituita l’adesione, fino alla totale identificazione, verso la proposta di un autore di oggi. Più che a leggere un libro, l’ascolto di una canzone del 2022 è paragonabile alle confidenze con un amico/a sdraiato/a sul letto con noi. E serve a quello: a riconoscersi – che era ciò a cui serviva anche quarant’anni fa, con la differenza che sono scomparse le mediazioni – ovvero non ci sono più gradi di separazione tra noi, quel testo e quel suono. Con un po’ di impegno e fortuna quella canzone avremmo potuto registrarla noi, o comunque andarci vicino.


Oggi e quarant’anni fa una canzone serve a riconoscersi, con la differenza che sono scomparse le mediazioni tra noi, quel testo e quel suono


Il discorso è utile ad avvicinarci alla rappresentazione dell’ingombrante e astiosa incomprensione che riempie il nostro presente. Perché è ora di fare i conti con l’atteggiamento di disprezzo nei confronti della nuova musica da parte di chi è cresciuto con quella “che c’era prima”. E’ il momento di avere requie dal “non si scrivono più le canzoni di una volta” o dal “i cantanti di oggi, a quelli di ieri non gli allacciano le scarpe”. E da qualche parte bisogna cominciare, perché è evidente che il controllo del discorso resti sempre nelle stesse mani e che la proprietà di linguaggio, dialettica e argomentazioni faccia pendere la bilancia invariabilmente dalla stessa parte, col risultato che chi oggi ha meno di vent’anni non può che fare spallucce e andarsene frustrato, con in testa il tarlo che davvero prima fosse meglio d’adesso e che ciò che si è perso non tornerà più. Come se poi ci fosse qualche soddisfazione, al di là di una impossibile rivincita rispetto all’essere vecchi, per chi non smette di puntualizzare che quanto s’è fatto in passato rimanga l’insuperabile modello originale. Il resto, in linea di massima, è noia.

Prendiamo Sangiovanni e Tananai. Predisponiamo il sacrilegio. Nel nostro altare mettiamo i loro santini in una nicchia non troppo distante da Venditti e De Gregori. Orrore! Il commento più pacatamente democratico ci risuona nelle orecchie: “Non fare il provocatore! Almeno ammetti che sono cose diverse. Ma che non si faccia confusione e si dia ai giusti ciò che meritano. A loro, e solo a loro”. Invece proviamo a tenere duro – e precisiamo che abbiamo detto quei due nomi, ma ne potevamo scrivere altri (Fulminacci? Gazzelle? Rhove? Ariete?), ma ci sono piaciuti questi per squisiti motivi di stereotipo: Sangiovanni ha 19 anni, Tananai 27, due storie diverse e due obiettivi che non collimano. Però anche delle caratteristiche comuni: entrambi sono arrivati a un discreto successo facendosi le ossa nella gavetta del presente, che non è fatta di cantine, sale prove e concerti di periferia, ma di talent (Sangiovanni si fa conoscere ad “Amici”), di autoproduzioni (Tananai si faceva chiamare Not for Us e si dava da fare come producer indie), di ambientazione digitale delle architetture musicali, di istintiva consapevolezza dei valori adesso irrinunciabili per tentare la scalata – la versione video, la cultura social, il controllo degli atteggiamenti pubblici, che verranno spiati e vivisezionati da chi potrebbe decidere di amarti. E ancora: tutti e due i cantanti sono solo la punta dell’iceberg, la porzione emersa di un lavoro di gruppo, “del mio team”, come dicono loro, facendo venire i nervi ai cultori dell’individualismo e del sacro procedimento creativo. E a tutti e due va riconosciuto un tasso di originalità che li distingue dalle produzioni seriali che al momento imperversano, in un mercato in cui il genere conta più delle figure artistiche (a cominciare dalla trap melodica condita di ritmi derivati, reggaeton in testa): questi due no, hanno un’idea personale in testa, differente ma difendibile, sebbene da qui alla patente di autori ci stia ancora di mezzo il Mar Rosso. 


Sangiovanni e Tananai non lontani da Venditti e De Gregori? Il commento più democratico ci risuona nelle orecchie: “Non fare il provocatore!” 


Già, insomma, piacciono, e parecchio, anche se la cosa è al 99 percento circoscritta ai coetanei. Ciò che fanno è semplice, arriva, colpisce dove deve colpire, ovvero l’immaginazione e la sensibilità di chi li ascolta, anche se i temi, il vocabolario e, più in generale, il linguaggio non siano paragonabili alla valenza poetica di coloro che hanno cantato prima (e che ancora ricantano i propri immortali capolavori). Sangiovanni e Tananai hanno una lingua spicciola, mutuata da quella istantanea con cui si comunica sulle chat e sui social.  Le melodie sono elementari, spesso difettano del miracoloso equilibrio e della capacità di respiro con cui ci sorprendevano i maestri, ovvero vanno sempre dov’è prevedibile che vadano, gli arrangiamenti sparano al bersaglio grosso e si avvalgono di matrici ritmiche e soluzioni timbriche già in circolo nell’aria. Però vengono ascoltati e in tanti nutrono per loro l’affetto che si riserva a qualcuno a cui vuoi veramente bene.

Qui si genera il dilemma: perché da un lato è lampante che i loro repertori musicali nemmeno sfiorino le ambizioni dei grandi. Eppure questa musica intercetta l’attenzione del pubblico e perciò acquisisce senso e valore, prima di tutto dal punto di vista rappresentativo. Da questo a concederle la patente di legittimità artistica da parte di chi si pone in una posizione di giudizio, ce ne corre moltissimo e ciò che arriva, di solito, è una valanga di rassegnata costernazione. Ed è qui, finalmente, che si apre il gap che, a ben vedere, è il motore del tutto – del movimento, del cambiamento, perfino del progresso, sebbene l’utilizzo di questa parola farà rabbrividire chi era convinto che la qualità fosse una questione evolutiva. Perché è il passo successivo, infine, a intercettare il cuore del problema: una musica popolare, con la sua leggerezza che si posa ovunque, ha senso, peso e importanza solo se racchiude in sé una bellezza oggettiva, sia pure ardua e riservata a pochi, oppure mantiene il suo valore anche se svolge senza filtri il compito di specchio dei tempi e di veicolo di condivisione, aggregazione e riconoscimento? Il fatto è che l’incolmabile distanza tra il videoclip (non la canzone, ma proprio il videoclip, che adesso è uno specifico musicale primario) in cui Tananai in “Esagerata” rincorre frastornato un’automobile per le strade dell’hinterland milanese  e il fraseggio di Antonello e Francesco che intonano “Bufalo Bill” davanti a una platea commossa, oppure quella tra i colori pastello del Sangiovanni di “Malibu” e il “qui si fa l’Italia o si muore” del  degregoriano “Cuoco di Salò”, fotografano lo slittamento di significati messo in atto dalla musica leggera nel giro di pochi decenni. Eppure questa differenza non può costituire un distinguo critico aprioristico, non deve necessariamente diventare parametro di giudizio. La distanza c’è, ed è lampante. Ma tocca in primo luogo a chi ascolta e percepisce una forma d’appartenenza attribuire un valore a quei tre trascurabili minuti. 

Le canzoni di Sangiovanni arrivano da una personalità che si descrive come prodotta da traumi e terapie. Lui dice di sé che la musica l’ha salvato quando non sapeva con chi parlare, si descrive come super-sensibile, super-paranoico, non un duro ma uno che soffre d’ansia, si sente debole e ha sempre paura di prendere freddo: “L’ansia mi mangia, non posso combatterla. Solo la musica mi fa star bene”. Interessante: anche Kurt Cobain aveva problemi di stomaco – e di ansia. Sangiovanni si scalda raccontando come per lui “Amici” sia stato un passaggio irrinunciabile anche se capiva che non era il massimo della coolness (si chiamano compromessi: merce del presente, “ma non ha meno dignità del resto”, racconta). Porta lo smalto celeste e nutre una sincera ammirazione per Justin Bieber. Sogna una casa. E un cane. 


Da un lato è lampante che i loro repertori non sfiorino le ambizioni dei grandi. Ma intercettano un pubblico, perciò acquisiscono senso e valore


Tananai è più grande e navigato. E’ perseguitato dalla vicenda d’essere arrivato ultimo a Sanremo ’22 (“Migliore dei peggiori”), quasi sia stata una paraculata – si nota di più se… etc etc. – e d’aver stonato di brutto cantando “Sesso occasionale”, che non è per niente un brutto pezzo, anche se lui stesso ammette che non è “un brano di Battiato. Però io faccio una cosa diversa”. Quando si racconta ha l’aria rassegnata, come se la parte che deve fare, quella del tipo figo e scazzato, alla fine gli pesi. Però è in ballo da abbastanza tempo da ammettere che essere capiti da tutti è un’utopia, da confessare “faccio musica per non giocare ai videogame” e da concedersi un “le cose stanno andando bene”, anche se “mi annoio facilmente, non ho disciplina, non riesco a concentrarmi”. E’ stato scelto da Fedez per il tormentone dell’estate “La dolce vita” e pare aderire al ruolo di gregario con ironia. 

In effetti Sangi e Tana, e altri che gli somigliano, sono i preferiti di una generazione, a colpi di grandi numeri. E a questo punto? In apparenza resterebbe solo il plotone d’esecuzione. O l’inquisizione: Sangiovanni, con quel nome che porti, confessa di non essere un vero cantante, un vero autore, tanto meno una parvenza di cantautore. Pèntiti, professa amore per i classici e vai a lavare le scale. Così, però, il gioco è finito. Anzi, la musica è finita, esaurita, archiviata. L’unico risultato è aver umiliato gli apocrifi, gli incompetenti, gli incapaci e, con loro, chi li ama e li segue. Si è scavata la voragine, che è la solita voragine tra lo ieri e l’oggi, sul limitare della quale in passato vennero combattute aspre battaglie. Soprattutto, e questo è il dato peggiore, si nega uno stile. Ovvero una possibilità espressiva che metta il bisogno al posto dell’ambizione, e l’approssimazione dove regnava la perfezione. Infine c’è un altro dato da aggiungere al quadro, prima di confrontarsi con la questione improrogabile (la solita: che fare?).


Con l’umiliazione degli apocrifi si nega uno stile, la possibilità espressiva che metta il bisogno al posto dell’ambizione della perfezione


Ed è che dopo diversi sussulti, si è spenta l’imitazione, la necessità di rifarsi ai soliti grandi, a coloro che hanno segnato la strada. Vige il rispetto assoluto (ascoltate cosa dice Franco126 della musica di De Gregori, quando con vergogna la confronta alla propria). Ma c’è anche un’indolente sensazione che comunque bisogna pur andare avanti, “oltre”. E che magari qualcosa succederà e prima o poi finiranno di risuonare i rimproveri e le rampogne dei molto-adulti. Che non fanno che dirti quanto sei stato sfortunato, a nascere nel momento sbagliato.