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La fatale prevalenza delle coppie al festival che ci ha abituato a grandi solitudini

Stefano Pistolini

La musica italiana sta cambiando pelle. E lo fa anche mettendo due artisti sul palco. Dal trionfo di Blanco e Mahmood a Jovanotti e Morandi. Fino al tentativo di Irama di riscattare Gianluca Grignani

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Nel festival che ci ha abituato alle grandi solitudini, perfino a quelle tragiche di Luigi Tenco, o degli sconfitti inconsolabili e dei vincenti invidiati, un altro passaggio definitivo di stagione segnato dall’edizione 2022 è stata la fatale e intrigante prevalenza delle coppie. Chiamiamola una grande, inaspettata apertura. Ma è un fatto che l’allure particolare delle esibizioni sia arrivato quasi sempre dal plurale combinato che ha messo due spiriti, sovente nemmeno sincronici, assieme sul palco, avviando per lo spettatore la suspense del capire come si sarebbe risolto quel rapporto dinamico (un’eccezione? Elisa, che coniuga il suo romanticismo con un individualismo d’acciaio, e difatti come partner nella sera delle cover ha scelto una danzatrice).

   

Ovvio che l’esempio trionfante di questo regime doppio sia quello di Blanco e Mahmood, coniugazione aperta a infinite soluzioni – anagrafiche, di razza, orientamento, stile, impeto, atteggiamento. Talmente geniale è il progetto d’incontro tra questi due artisti, immediatamente riconosciuto dal pubblico come insuperabile, che è lampante come la stessa “Brividi” affidata a uno solo dei due avrebbe ottenuto un effetto assai minore. Era la combinazione a sbalordire e tutto ciò che di cinetico, teatrale, misterioso e sexy ha presentato quel set a due teste, che ha catalizzato l’attenzione di una platea trasversale per varie alchimie intrecciate, solo ultima quella vocale. Lo spettacolo del 29enne Mahmood e del 18enne Blanco che duettavano, si rispecchiavano, palleggiavano coi gorgheggi, si avvinghiavano come cuccioli, ha stregato la platea più generalista che si possa immaginare, l’ha conquistata e sottomessa a una messinscena con così tante impreviste implicazioni da suonare sottilmente rivoluzionaria, eppure furbescamente mainstream.

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Però lo stesso è stato, per esempio, per Jovanotti e Morandi, che hanno brillato, commosso ed entusiasmato quando sono apparsi all’Ariston insieme, vestiti uguali come quelli delle band anni Sessanta e hanno condiviso un medley di due pezzi per ciascun repertorio che ha fuso due attitudini che in realtà non hanno niente in comune, nemmeno una minima radice e vengono da strade diversissime. Del resto Morandi da solo fatica a fare l’indiavolato e Lorenzo da un po’ ha lo strano deplacement che si porta dietro, una specie d’inevitabile fardello esistenziale che rende più sofferta l’interpretazione a cui la sua maschera gioiosa ci ha abituato per tanti anni. Insieme hanno miracolosamente trovato la formula per diventare un’altra cosa, terza, un intrattenimento così italiano, classico, leggero, di un gusto nostrano, per tutti facile comprendere e partecipare.

 

Ma, ancora, pensate ad altre complementarietà improvvisate sulla ribalta del festival: Giovanni Truppi con Vinicio Capossela, e il loro De Andrè che ci stava tutto, era degno e misurato, composto e plausibile. O l’impossibile sodalizio tra Achille Lauro e Loredana Berté, che trasudava tensioni, incomprensione, scarsa voglia di capirsi a vicenda e che invece ha generato un’istantanea memorabile, quando Achille, animale da palcoscenico come pochi, ha avuto l’intuizione d’inginocchiarsi davanti alla regina cattiva e lei si è sorpresa, si è animata e, imbarazzata, ha fatto il gesto più inatteso: l’ha carezzato sul capo.

  

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Oppure il tentativo velleitario di Irama di riscattare Gianluca Grignani, lo scomunicato della musica italiana, portandolo con sé a ricantare “La mia storia tra le dita” che per l’altro, per il perdente, doveva avere il peso d’un fardello insopportabile. Anche là è esploso lo sviluppo drammaturgico del duetto, ben oltre la prevedibile cantata nostalgica, ed ecco la condotta irregolare di Gianluca, la sterzata dal copione, le frasi non previste mugolate ad Amadeus che voleva cavarsela con un “torna presto a trovarci”. Ma quale “presto”, la vita non è un presto, può essere un guaio e un dolore, perfino sul palco di Sanremo. Quel duetto ci ha raccontato una storia più vera del previsto.

  

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La morale del ragionamento è che la musica italiana davvero sta cambiando pelle, sarà colpa della pandemia, dello streaming, del sovrapporsi delle generazioni, del prolungato stop, dei talent show, chi lo sa. Ma il cambiamento, tra tante nevrosi, somiglia a un procedimento di crescita, alla base – o al vertice – del quale c’è questa diffusa voglia dei cantanti di essere meno dei prodotti e più degli attori, dei soggetti attivi della loro evoluzione, del vivere nel proprio tempo, del loro sforzo di combinare qualcosa che faccia loro trovare un senso, come dice quello che ha appena compiuto 70 anni (!). Per quanto tutti, poi, si sia più o meno consapevoli che un senso questo vita forse non ce l’ha. 

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