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Trent'anni di Achtung Baby degli U2

Enrico Veronese

Il 18 novembre 1991 usciva il disco con il quale il gruppo irlandese abbattono Joshua Tree. Nessuno sino ad allora aveva avvertito che gli anni Novanta erano iniziati davvero, e non erano un continuum della decade precedente

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A 17 anni si è ancora autorizzati a pensare che una canzone possa salvare il mondo. Se “Wind of change” degli Scorpions è la colonna sonora ideale dell’Ottantanove berlinese, agli Hansa Studios, nella centralissima Potsdamerplatz, in quei mesi di folle ubriacatura gli U2 si preparavano a lanciare la propria OPA sul mainstream e l’immaginario degli anni Novanta. “Achtung Baby” – pubblicato il 18 novembre 1991 – si fa scudo di Trabant customizzate, simbolo già nostalgico quanto la Siegessaule, colonna alata della vittoria cara a Wenders, lo era per la città dell’ovest. Davanti allo Zoo (meta di pellegrinaggio come la vicina chiesa bombardata dell’imperatore Guglielmo) Bono Vox, The Edge, Adam Clayton e Larry Mullen jr. abbattono Joshua Tree, il disco “americano” con il quale i cattolici, epici, controrivoluzionari U2 erano entrati nel mito: là dove l’albero e le sue radici rappresentano il Novecento, le superpotenze, i nonni che piano piano ci lasciano. La fine del mondo allora conosciuto lascia spazio all’incognita postmoderna, la generazione X.

Play. Nessuno aveva avvertito che gli anni Novanta erano iniziati davvero, e non erano un continuum della decade precedente: ci sono i jeans squarciati dal grunge là fuori, Bellini e Cocciolone sono prigionieri in Iraq, non si sa la direzione, né a che ora è la fine del mondo. Magari sbagli facoltà, magari gli amici del giorno prima l’indomani non ci sono più: nell’anno dell’Europa unita per sviluppare una fotografia ci vogliono 25 minuti, con la televisione satellitare si può arrivare dappertutto. In tre anni esploderanno le “prime” bbs di internet, il rumore del caos anticipa il comune pensiero futuro: “Tutto ciò che conosci è sbagliato, guarda più tv” (even better than the real thing), ogni artista è un cannibale che uccide la propria ispirazione e canta per il dolore. Grazie ai produttori elettronici Brian Eno e Daniel Lanois, il primo singolo “The Fly” spiazza di glam aggiornato: non sono pochi quelli che ci rimangono sotto, L’Unità non ancora veltroniana – per non dire di Repubblica e del suo inserto Musica – eresse l’album a monumento istantaneo dei tempi nuovi, l’inciso “mi unirei al movimento se ce ne fosse uno in cui credere” (da “Acrobat”) diventa il paradigma per i propositi di fine anno.

 

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Nel breve volgere di una stagione frenetica, Bono viene invitato ai vertici internazionali, madonna pellegrina che prova a cancellare il debito tra Maastricht e la guerra globale per (Miss) Sarajevo. “One” canta l’amore universale, diventa la canzone più suonata negli sfondi ai servizi che i tg dedicano a chi stacca un pezzo di Muro, e tutto si fa grande se non adulto: in primis i tour dei quattro irlandesi, macchina da spettacolo, maxischermi, trovate eclatanti e merchandising pezzotto. Fra il 1992 e il 1993 i palasport e gli stadi ospitano MacPhisto, l’alter ego di Bono che dal palco bolognese telefona perfino ad Alessandra Mussolini, nell’euforica terza via ottimista dove la musica conta quanto la politica di Clinton per risolvere i conflitti.

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Spinti dai concerti, gli U2 si consolidano come la penultima band totale, senza rivali nominali se non i REM, per il peso dei brani, e i Depeche Mode per l’aspetto live e l’iconografia: altre dimensioni rispetto alla faida mediatica tra Oasis (“please don’t put your life in the hands of a rock’n’roll band, who’ll throw it all away”) e Blur. Solo i Radiohead, a fine secolo, avrebbero saputo imboccare la stessa strada con successo pari alla ritrosia: senza l’ardita forzatura di “Pop”, pare, non vi sarebbero stati “Kid A” e “Amnesiac”. Già dieci anni dopo “Achtung Baby”, nel 2001, fu il ritrovato potere della discografia a imporre il debutto vincente degli Strokes, e poco dopo i fan via Myspace decretarono il boom degli Arctic Monkeys: la teoria della coda lunga parcellizza gli ascolti e le affezioni, terminando l’esperienza delle band generaliste (dinosauri a parte, appunto).

  

Mentre viene immessa nel mercato l’edizione deluxe della cifra tonda, perché la propria storia è come il proverbiale maiale di cui non si butta via niente e Natale è pur sempre rimasto l’unico periodo dell’anno che fa vendere qualche disco, il pensiero vola candido al quasi diciottenne di cui sopra: avesse oggi la stessa età, dove troverebbe epifanie spettacolari di questo livello magnificente, e di tale immanenza per la sua crescita valoriale? La risposta, triste, è di casa nelle misere classifiche di vendita, nelle playlist valide due giorni, nel vuoto senza bassi che echeggia dai telefoni, in un pomeriggio di noia al parcheggio del supermercato: i normali hanno vinto al ribasso.

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