Il foglio del weekend
La poesia delle mutande
Per imparare a volerci bene, la sinistra dovrebbe ripartire da Lucio Dalla. I primi cinquant’anni di “4 marzo 1943”
Una mattina di settembre di due anni fa, mentre raccoglievano rifiuti tra i fondali al largo delle Isole Tremiti, mare Adriatico, provincia di Foggia, i ragazzi dell’Associazione Albatros trovarono una maglietta autografata da Lucio Dalla. Sopra, sotto la sua faccetta, c’era scritto: “I Sogni non finiscono mai”. Erano ragazzi ciechi – l’associazione Albatros-Progetto Paolo Pinto di Bari esiste da molti anni e promuove le attività subacquee per non vedenti.
Michele Emiliano, presenzialista immanente, non si fece sfuggire l’occasione e twittò: “Questa maglietta, questo cimelio, riemerge per ricordarci che il mare è profondo e preziosissimo”. Naturalmente, risultò patetico, di certo non unico, e non soltanto perché il solo al mondo a poter dire che il mare è profondo senza risultare altro che perfetto è stato Lucio Dalla e non ce ne saranno altri – “Contemplandolo, esclamare: quanta acqua! Quanta acqua!”, consigliava Flaubert, come ha sempre ricordato Andrea Ballarini nel suo “Manuale di conversazione” su questo giornale. “Com’è profondo il mare” è un pezzo che Dalla fece uscire nel 1979, l’anno di operai e studenti furiosi e molti morti ammazzati per strada, violenza dappertutto, tanto che vennero bloccati i concerti internazionali. Il riflusso sarebbe cominciato di lì a poco, ma in musica prese avvio proprio quell’anno, i cantautori si tolsero di dosso il macigno dell’impegno, incluso Dalla, che disse: “Non ho mai creduto in maniera totale alle canzoni di protesta. Ne ho scritte anche io, hanno avuto una funzione, ma per fortuna è finita”.
Quarant’anni e passa dopo, Emiliano ha dato a “Com’è profondo il mare” un senso ecologista che non aveva, perché se mai aveva senso religioso del creato ed era una canzone sulla lotta di classe, “spesso inconsapevole”, e soprattutto sulle persone normali, su quanta forza hanno, e su come le coercizioni del potere la dominino e la trasformino in paura.
Dalla, già da prima di allora, sapeva di voler dare piacere a chi gli piaceva: le persone, la folla, il branco di pesci “dai quali discendiamo tutti”. E gli era soprattutto chiaro che non intendeva guidare o istruire: al giornalista di Poster che gli chiese che funzione avessero i suoi dischi, rispose che la gente “ci si dovrebbe pulire il culo e poi gettarli via” (è una delle molte interviste che Jacopo Tomatis ha raccolto in “E ricomincia il canto”, appena uscito per il Saggiatore). Il ’77 bolognese Dalla lo aveva guardato dai giornali, dai notiziari, mai dalla strada: era rimasto a casa, sconcertato e innervosito dalla violenza, dalle grida, dall’estremismo. Giorgio Bocca, in un’intervista epica che apparse sull’Espresso il 29 luglio del 1979, gli disse: “Proprio tu che canti la folla, quando succede un gran casino, ti chiudi in casa?”. E Dalla rispose: “Il mio rapporto con la folla attraverso la canzone è un rapporto di comunicazione e di partecipazione. Quella folla bolognese mi risultava incomprensibile. Incontravo gli amici del biliardo e dei tortellini ed erano improvvisamente diventati rivoluzionari, mentre quelli che avevano parlato per anni di rivoluzione si defilavano”.
Scrisse che l’impresa eccezionale è essere normale mentre i giovani e la sinistra furoreggiavano, lui che pure era di sinistra, comunista – nell’81 disse a Panorama: “Non sono più comunista per quello che è stato il comunismo, lo sono per quel che di nuovo il comunismo deve avere”. La folla tentava la rivoluzione e lui se ne stava solo, mezzo nudo, sul divano, a pensare (cosa che vedeva fare poco, e che quindi cantò molto) e scrivere canzoni, convinto che con le canzoni si potesse fare tutto.
Se doveste scrivere Lucio Dalla in emoticon, cosa usereste? Un’onda, un lupo, un paio di mutande. Le mutande per via di “Disperato erotico stomp”, quando fa “io sto sempre in casa, esco poco, penso solo, sto in mutande”; “Felicità”, quando fa “mi manca sempre l’elastico per tener su le mutande così che le mutande al momento più bello mi vanno giù, come un sogno infinito”; Bocca, che gli chiese: che significano le mutande nelle tue canzoni? Risposta: “L’uomo in mutande l’ho copiato da Vasco Pratolini”.
Torniamo alle Isole Tremiti, e precisamente all’isola di San Domino, cinquant’anni fa: lì Lucio Dalla scrisse “4 marzo 1943”, rileggendo per la centesima volta il testo che Paola Pallottino, paroliera sua collaboratrice, gli aveva mandato su un foglietto e che lui, essendosene immediatamente innamorato, qualche sera prima aveva letto a Sergio Bardotti, con il quale scrisse poi “Piazza grande”. In “Lucio Dalla”, appena uscito per Mondadori, Ernesto Assante e Gino Castaldo ricordano questa versione e quella di Pallottino, che disse, invece, di aver portato il pezzo a Dalla di persona, a Bologna. Fu sempre lei a opporsi quando, a Sanremo, la canzone non passò per via del titolo, “Gesùbambino”, considerato troppo blasfemo, mentre Dalla ci mise un attimo a cambiarlo in “4 marzo 1943”, così creando “una confusione poeticamente autobiografica”, tant’è che la prima grande biografia di Lucio esce adesso, in occasione dei cinquant’anni di questo pezzo, come se lui fosse nato quando è nata questa canzone, e forse un po’ è vero.
Di Dalla non si può che essere feticisti e quindi ossessionati da tutte le tracce, le storie, i segni. Non si può non esserlo perché Dalla aveva qualcosa di divino, come Mozart e John Lennon (come la scrivi, altrimenti, “Anna e Marco”? Suvvia, un mortale non basta). Il feticismo ci serve, specie adesso che tutto è smaterializzato e non possiamo dirci praticanti, quand’anche ci diciamo cattolici, perché altrimenti sai che figura da medievali medievisti ci facciamo. Dalla era cristiano cattolico credente fervente praticante, lo fu da bambino e lo rimase per tutta la vita, frequentò preti frati chiese messe, fu devoto a Padre Pio, che incontrò da piccolo e del quale conservò sempre un guanto, e a San Domenico, al quale tributò uno dei suoi soprannomi, tuttora il nome che compare sul citofono di casa sua a Bologna, in via d’Azeglio: Domenico Sputo (Domenico per il santo, sputo perché amava sputare ai piccioni). A dare la notizia della sua morte, il primo marzo del 2012, furono per primi i frati della Basilica di San Francesco d’Assisi. Dissero che era morto “il cantautore di Dio”. E state lontani da chi non ricorda quel giorno, da chi non sa cosa stava facendo quando si seppe quella notizia atroce: è persona non raccomandabile.
Le cose da conoscere, cucire, amare di Lucio Dalla sono un’infinità, alcune non sappiamo se sono vere, però esistono lo stesso, perché lui era un bugiardo alla maniera di Fellini: per creare mondi che colorassero il nostro, così noioso, per dubitare della realtà, per creare. “Era un genio assoluto, capriccioso e bugiardo come tutti i geni”, ha detto Paola Pallottino a questo giornale. Nella sua classifica dei più grandi bugiardi italiani, Fellini mise sé stesso al primo posto, al secondo Pinocchio e al terzo Lucio Dalla. Si mente piacere agli altri, e anche se “ho mentito per il tuo bene” è una frase paternalista e terribile, è anche una cosa vera, una protezione che spesso funziona.
Le cose che si possono dire di Dalla sono milioni di milioni, il jazz, il pop, le sperimentazioni, le automobili, Roversi, la mamma, il clarinetto, Bologna, Merdman, testa dura testa di rapa, quella volta che a Sanremo salì lo stesso sul palco dopo la morte di Tenco e cantò un brano che sembrava quasi canzonarlo (“Bisogna sapere perdere, bisogna saper perdere”), l’odio che ha suscitato (“gli dicevano di tutto, la magnificazione è iniziata post mortem”, ha detto Pallottino). Però adesso, forse, la cosa più importante da dire è che Lucio Dalla era una brava persona: brava persona era nato e brava persona voleva essere, come si deduce da “4 marzo 1943”, la sua biografia intenzionale. “Per fare canzoni amate dalla gente, bisogna amare la gente”, scrisse nel ’77. E’ della gente, delle persone, di Anna, Marco, Maria, Alfredo, Meri Luis, ragioniere (dia a me la borsa!), i marinai, che Lucio Dalla era innamorato, desiderando tutti talvolta in modo lupesco, talaltra impalpabilmente. Amava per bene, per curiosità. Nella sua casa di Bologna ci sono passaggi segreti con delle piccole fessure nel muro attraverso le quali osservava i suoi ospiti. Amava da sentirsi morire – se d’amore è proprio vero che non si muore, cosa ci faccio nudo per strada mentre fuori piove?
Scriveva: povero cuore, cuore malandato, cuore di puttana, cuore ad imbuto, cuore in cantina. E quando non soffriva, quando non sentiva niente e magari stava bene, si preoccupava d’essersi difeso troppo: “In questa notte calda di ottobre, apriti cuore, non stare lì in silenzio senza dir niente, non ti sento da troppo tempo, ti ho tenuto lontano dalla gente”. La ragione per cui è così bello ascoltare Lucio Dalla è che Lucio Dalla ci voleva bene. Ci amava. Si occupava di noi. Ci aveva a cuore. Ci diceva: tutti insieme siete bellissimi, splendenti, stellari, anche se tra di voi ci sono anche i delinquenti, non fa niente, “non bisogna aver paura ma stare un poco attenti”. Il mondo secondo Dalla era una massa di persone alle quali fare del bene con le canzoni ma non soltanto con le canzoni. Ogni anno, il giorno dell’Epifania, Lucio Dalla pagava il pranzo a tutti i barboni di Bologna.
Noi battagliamo per gli artisti che sono cattive persone, ed è una battaglia sacrosanta perché ultimamente c’è chi li vorrebbe cancellare, e non sono soltanto ragazzini estremisti e ideologici e arroganti com’è giusto essere da ragazzini: anche Franzen ha detto che non riesce a guardare i quadri di Caravaggio senza pensare che era un assassino e provare, così, repulsione. Battagliamo ed è giusto. Diciamo: si deve dividere l’uomo dall’artista. Diciamo: una pessima persona può fare cose magnifiche. È vero, è importante ribadirlo. Però, accidenti, certe volte è anche stancante. E allora è bello, allo stremo o nel pieno delle forze, ascoltare “La Sera dei Miracoli” e sentire una brava persona che ci guarda come un pastore, e ci dice che tutti insieme siamo un galeone lucente e illuminiamo la città, la muoviamo, la facciamo volare. Così è stato politico, Lucio Dalla, il più politico di tutti: guardandoci con i suoi occhi possibilisti, forse perfino ottimisti, e dicendoci che senza di noi non poteva proprio stare, e che andavamo bene, in quel modo che alla sinistra non riesce, perché la sinistra ha il dramma di volerci sempre migliorare, e certe volte scivola e fa delle gaffe tremende, che svelano che un po’ ci odia, ci trova buzzurri, cheap, tutti da gentrificare.
Senza Lucio siamo orfani d’amore, proprio non possiamo stare, e ascoltiamo Massimo Pericolo e i rapper e tutta la loro rabbia e diciamo, però, che bravi questi nuovi giovani, che vivida la nuova scena italiana che canta veridiche indignanti storie di disagio malessere nequizie e però poi, alla sera, a volte, sentiamo una grande stanchezza, e ci spogliamo, e ci troviamo mogi e rugosi, e ci chiediamo perché Massimo Pericolo ci odia così tanto, che cosa gli abbiamo fatto, ma che diavolo vuole da noi, va bene che la vita in periferia è orribile ma non l’abbiamo mica costruita noi Gallarate; ci chiediamo perché non va a farsi un giro in centro, perché non è in grado di intenerirsi nemmeno per un momento, perché non si scioglie e non si dà e non ci dà darsi tregua, perché non la pianta di accusarci tutti, indistintamente, come se non fossimo capaci di ispirare canzoni ma soltanto di farle a pezzi. E allora, a quel punto, grazie al cielo, abbiamo Lucio da ascoltare. Stella di mare, tra le lenzuola.
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