PUBBLICITÁ

Sangiorgi ci dice come si reagisce alla guerra del commento

Simonetta Sciandivasci

La pandemia, la musica, la nostra salvezza che dipende dagli altri. Chiacchierata con la voce dei Negramaro

PUBBLICITÁ

I Negramaro sono stati la prima band italiana a suonare a San Siro, a finire su una copertina di Billboard, a fare un concerto interamente interattivo. Non una diretta streaming dal salotto di casa, ma un concerto vero, con tutti i crismi, su un palco montato al centro di un’arena live digitale, un cubo sui lati del quale il pubblico collegato da casa veniva proiettato. Nessuno poteva toccarsi, ma tutti erano vicini, potevano guardarsi, vedersi meglio: era straniante, ma non del tutto - alla UCL di Londra, la neuro scienziata Kristina Fotopoulou ha condotto uno studio su come il semplice vedersi possa fornire al cervello umano una buona parte degli stimoli che gli fornisce il toccarsi. Pochi mesi prima di quel concerto nel cubo, a novembre scorso, in un’intervista per l’uscita dell’ultimo disco, “Contatto”, Giuliano Sangiorgi aveva detto: “Se tra due anni è ancora così, cambio mestiere”. Scherzava, ma non completamente. Un tratto che non ha mai perso è lo stare in bilico, “tra santi e falsi dei”, tra 0 e 1, sempre troppo attratto da tutto per riuscire ad accontentarsi di una sola posizione, un unico colore, un solo modo di suonare – la settimana scorsa i Negramaro hanno annunciato il tour di Contatto: la prima data sarà il 19 marzo, il giorno della festa del papà, in streaming, mentre dalla seconda in poi, a ottobre, ci saranno i concerti dal vivo.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


I Negramaro sono stati la prima band italiana a suonare a San Siro, a finire su una copertina di Billboard, a fare un concerto interamente interattivo. Non una diretta streaming dal salotto di casa, ma un concerto vero, con tutti i crismi, su un palco montato al centro di un’arena live digitale, un cubo sui lati del quale il pubblico collegato da casa veniva proiettato. Nessuno poteva toccarsi, ma tutti erano vicini, potevano guardarsi, vedersi meglio: era straniante, ma non del tutto - alla UCL di Londra, la neuro scienziata Kristina Fotopoulou ha condotto uno studio su come il semplice vedersi possa fornire al cervello umano una buona parte degli stimoli che gli fornisce il toccarsi. Pochi mesi prima di quel concerto nel cubo, a novembre scorso, in un’intervista per l’uscita dell’ultimo disco, “Contatto”, Giuliano Sangiorgi aveva detto: “Se tra due anni è ancora così, cambio mestiere”. Scherzava, ma non completamente. Un tratto che non ha mai perso è lo stare in bilico, “tra santi e falsi dei”, tra 0 e 1, sempre troppo attratto da tutto per riuscire ad accontentarsi di una sola posizione, un unico colore, un solo modo di suonare – la settimana scorsa i Negramaro hanno annunciato il tour di Contatto: la prima data sarà il 19 marzo, il giorno della festa del papà, in streaming, mentre dalla seconda in poi, a ottobre, ci saranno i concerti dal vivo.

PUBBLICITÁ

 

“Ho cercato il contatto, di parlare ero stanco, ho voluto sentire sul corpo le cose che un giorno mi hai detto”. La stanchezza di cui non parliamo mai ma che proviamo tutti è questa qui che viene dal dover dire, spiegare, comunicare: tutte cose che la pandemia ha reso inevitabili e imprescindibili, perché surrogano tutto. Non ci badiamo più, ma tutto quello che prima ci potevamo permettere di risolvere o – che bellezza – di non risolvere affatto perché tanto bastava un abbraccio, adesso è una matassa da sbrigliare, un onere, un tema, un ordine del giorno. E allora ci vuole un fisico bestiale. Ci dice Sangiorgi: “Ho una grande fortuna: non mi danno quando non ho niente da dire. Resto in silenzio, ci sto benissimo. Se una canzone non viene, non la forzo, non me ne sto seduto con la chitarra a provare e riprovare finché non arriva. Piuttosto, mi coccolo con la musica degli altri, con un libro, con un film. Mi sono accorto che la chitarra la prendo nel momento in cui una canzone arriva e che essere al servizio di una canzone non significa solamente scriverla e cercarla, ma pure aspettarla. E vale per tutto il resto delle cose che comunico ed esprimo: aspetto che vengano e poi ci lavoro sopra, ci penso a lungo. Per questo mi sbalordisce la guerra del commento, vera arma di distruzione di massa del nostro tempo. Anzi, arma di autodistruzione”. E l’urgenza? “Ma sa che io non mi sento nemmeno troppo padre delle mie idee? Mi attraversano, proprio come mi attraversa la vita, ma so che non sono mie e infatti quando scrivo mi sento onnipotente e appena finisco torno a sentirmi il solito stronzo”. E la paura che domani tutto finisca non la ha? “Tutto cosa: il mondo, la musica, la mia vita?”. Diciamo la musica. “Sono sicuro che un giorno smetterò, perché non avrò più niente da dire. Non so quando capiterà, se domani o tra vent’anni, ma so che sarò in grado di riconoscere quel momento e che non lo temo. Perché dovrei? Significherà che sarò cambiato”.

 

PUBBLICITÁ

Lei è troppo sicuro, diffido. “Fa male. Primo perché io non sono affatto sicuro: sono consapevole, ed è molto diverso. Secondo perché la diffidenza è un brutto errore, forse il peggior difetto che si possa avere. La cosa che più temo di questo momento assurdo che viviamo è che abitui i bambini a diffidare degli altri in modo indelebile. Mi preoccupa molto l’idea che mia figlia possa diventare un’adulta che teme il prossimo perché io le sto insegnando che deve stare lontana da tutti, anche dal vicino di casa. Capisco che per ora non possiamo fare diversamente, ma vorrei anche che ci ricordassimo che, quando tutto questo passerà, dovremo fare un grande sforzo per educare nuovamente i bambini ad andare incontro agli altri”. È così certo che sia un bene andare incontro agli altri? “Eccome. La nostra salvezza dipende dagli altri: la pandemia ce lo ha messo sotto al naso. Per salvare me stesso devo avere cura di te: la spinta verso il bene è egoistica, ma il risultato non è l’egoismo. È un bel paradosso”. Del resto lei ha affidato la sua migliore canzone a un’altra persona. “Quale? Chi?”. Come Foglie, a Malika Ayane. “Quel pezzo era un di più, avevo appena finito di registrare La Finestra, ero a San Francisco, ma avevo ancora qualcosa da dire e allora scrissi un pezzo per Robert Post. Poi mi chiamò Caterina Caselli, che aveva appena firmato con Malika, e mi chiese di ascoltarla. Rimasi incantato dalla sua voce petrosa, le diedi immediatamente una fisionomia e capii che era perfetta per quel brano: lo tradussi in italiano, lo rividi e nacque “Come foglie”, la canzone che spiega il mio amore per l’estate: sta tutto nell’attesa che arrivi e però quando lo fa, quando c’è, finisce. Amo aspettarla, non viverla. Per questo d’estate muoio un po’”.

 

Ma non le rode di non aver dato via uno dei suoi capolavori? “Scrivere canzoni che non canterò io è magnifico: è come guardarsi allo specchio, vedere un altro e sentirlo parte di me”. Sia onesto, gli altri non la seccano mai? Lo dico all’uomo che non viene lasciato in pace mai, al quale tutti chiedono di cantare, sempre, dappertutto, anche mentre nasce sua figlia: so che in sala parto le è stato chiesto di cantare. “In quel momento avrebbero potuto chiedermi anche di cucinare e lo avrei fatto. Non avevo paura di niente. Quel giorno ho capito che io con la vita di mia figlia c’entravo e c’entrerò sempre poco: oggi c’è Stella, lei esiste per conto suo, fa le sue scelte per conto suo, crescerà a modo suo e io non potrò che accompagnarla, consapevole del fatto che prima o poi sarò per lei soltanto una fotografia. Come mio padre è per me ora”. In Contatto lei canta a un certo punto: “è proprio vero, i tempi stan cambiando e di cambiare non ci penso affatto”. E’ resistenza? “Quella canzone, Mandiamo via l’inverno, contiene lo stilema di tutto il disco: parlare di cose gigantesche partendo da piccoli punti di vista strettamente personali. Va bene, c’è il riscaldamento globale, ma c’è anche un porno da vedere in casa: lo sguardo sul mondo deve essere caldo come quello che riserviamo alla nostra vita privata, intima. Il polso di come vanno le cose lo hai se accetti di restare nel contrasto tra caldo e freddo, tra privato e pubblico”. Ma il cambiamento lo accetta o no? “Il bello è che cambierò io e cambierà il mondo sia che io lo accetti sia che io non lo accetti. Sono minuscolo, sono un accidente, ma sono libero”. Un accidente, un caso, ma con uno spiccato accento salentino. Lei è radicatissimo, o almeno lo sembra. “Certo che lo sono, ma le radici sono vitali fintanto che vanno in profondità e non si vedono. Io voglio fare come gli alberi: tenerle per me, lasciarle affondare e forse, a volte, persino dimenticarle. L’ostentazione di ciò da cui si arriva non alimenta condivisione, ma crea ghetti”. Pare che lei sia un grande cuoco. “Questo lo dicono gli altri. Io dico semplicemente che cucino perché mi piace far felici gli altri”. Il suo piatto forte? “Mi piace mescolare cucina salentina e cucina siciliana. E mettere melanzane ovunque”.

 

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ