PUBBLICITÁ

Il festival che sarà

Sinfonia dal nuovo mondo

Simonetta Sciandivasci

Madame, Coma Cose, Fulminacci mandano in pensione il vecchio Sanremo. Lo meritavano da un pezzo

PUBBLICITÁ

In settant’anni di festival di Sanremo, la parola “ventenni” non è stata cantata mai, neanche una volta. Amore, 1024. Odio, 42. Vaffanculo, due. Porco, zero. No, 376. Sì, 1061. Maschi, una. Femmine, zero. Uomo, 200. Donna, 134. Comunista, uno. Fascista, zero. Sempre, 649. Mai, 775. Sms, zero. Mail, una. Internet, zero. Instagram, Facebook, Twitter: zero, zero, zero. Giovani, 16, inclusa la bizzarra occorrenza nella bruttina e stagionata “Oltre il giardino” di Kaligola (2015): “Il suo nome è Giovani, ha 64 anni, sorride ogni giorno sin dal primo mattino, passa il tempo rovistando in un cestino”. Non è una fotografia perfetta della relazione squilibrata, per non dire tossica, tra l’Italia e il suo futuro?

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


In settant’anni di festival di Sanremo, la parola “ventenni” non è stata cantata mai, neanche una volta. Amore, 1024. Odio, 42. Vaffanculo, due. Porco, zero. No, 376. Sì, 1061. Maschi, una. Femmine, zero. Uomo, 200. Donna, 134. Comunista, uno. Fascista, zero. Sempre, 649. Mai, 775. Sms, zero. Mail, una. Internet, zero. Instagram, Facebook, Twitter: zero, zero, zero. Giovani, 16, inclusa la bizzarra occorrenza nella bruttina e stagionata “Oltre il giardino” di Kaligola (2015): “Il suo nome è Giovani, ha 64 anni, sorride ogni giorno sin dal primo mattino, passa il tempo rovistando in un cestino”. Non è una fotografia perfetta della relazione squilibrata, per non dire tossica, tra l’Italia e il suo futuro?

PUBBLICITÁ

 

Massimo Arcangeli, linguista, che insieme a Luca Piroddi, dopo cinque anni di lavoro, ha creato “Le parole di Sanremo”, il motore di ricerca che trova tutte le parole delle canzoni del festival, ha scritto: “Si possono sfruttare gli esiti della ricerca per futuri capitoli di storia linguistica sociale”. Eppure a Sanremo quasi mai s’è cantato come s’è mangiato, o s’è detto come s’è pensato, e infatti il paese reale (esiste davvero? Se sì, dove abita? Ha l’X factor?) non si è mai sentito rappresentato, e i detrattori e gli avvilenti hanno sempre concordato su come, specie da vent’anni a questa parte, il festival nulla abbia a che vedere con la musica e tutto abbia a che fare con i costumi e i malcostumi degli italiani.

 

PUBBLICITÁ

“Per mezzo secolo ho militato nello schieramento Sanremo sì, poi qualcosa è mutato e il Festival si è rivelato incapace di divertire e di registrare in alcun modo i cambiamenti profondi che conosceva la società italiana, diventando un fenomeno di costume come tanti altri, futile e vanitoso”, scriveva sulla Repubblica Luigi Manconi, a febbraio scorso – la prima volta che Manconi mise piede al festival aveva 17 anni e, insieme a Bianca Pitzorno, era stato scelto “per ragioni imperscrutabili” come membro della giuria popolare, sezione di Sassari.

 

A marzo 2021, quando la settantunesima edizione del FdS si sarà conclusa, è probabile parole come quelle di Manconi sembreranno lontane come la Rai degli sceneggiati con Gino Cervi: sagge, sagaci, ma tramontate, quindi inadatte. Dopo la finale di Sanremo Giovani, trasmessa giovedì scorso dall’Ariston, tutti i titoli dei giornali parlavano di novità, coraggio, ardimento, ventenni, (buona) musica, finalmente. Gino Castaldo ha scritto: “Il prossimo festival sarà, con rarissime eccezioni, una carrellata di giovani, giovanissimi, alternativi, allergici al mainstream e altre insolite presenze: altro che Primo Maggio, altro che PrimaveraSound.

 

Il nuovo, se volete, dovrete cercarlo proprio nel più antico dei tempi”. Enfatico ma giusto. Nel presentare la serata, Amadeus ha detto che il prossimo sarà il Sanremo della rinascita, riferendosi naturalmente al virus, che ci ha fatto inscrivere tutto il brutto che è successo negli ultimi dieci mesi dentro un piano di vendetta cosmica e di iattura ancestrale dal quale ci tirerà fuori solo uno scatto epico, un piano Marshall emozionale, la coscienza incosciente dei sopravvissuti. Magari è stato anche per via dell’ultimatum che la pandemia ha soffiato sul collo di tutti che persino la Rai ha deciso di rischiare, capendo che per onorare la dicitura “Festival della canzone italiana” è necessario portare sul palco Orietta Berti ma pure i Coma Cose, Fulminacci, Madame.

PUBBLICITÁ

 

PUBBLICITÁ

Ha capito che in Italia è cambiato il cantautorato, si sono mescolate le generazioni, sono arrivati ventenni grati e capaci, romantici e incantevoli, delicati, preparati, che scrivono canzoni vaporose, colte, efficaci, e che il paese è lì, nel realismo poetico di venti trentenni inaspettati, che hanno smentito tutte le previsioni (credevamo che dopo gli sdraiati non ci sarebbero stati che impediti nichilisti, semplicisti e ignoranti stronzi, e invece sono arrivati inventori, artigiani digitali, impegnati, vispi, ben educati). Venti trentenni che non se la fanno sotto, e sognano di poter continuare a sognare sogni di pienezza e integrità, semplicità e grazia, e sanno progredire e fiorire anche dentro vasi rotti, sotto cieli coperti e periferici.

 

PUBBLICITÁ

Sono ragazzi che col rap, la trap, persino il funky, il soul, e pure l’indie, guardano l’Italia e scrivono una canzone come “Nuove Strade” (Madame con Ernia e un sacco d’altri), una canzone splendida sulle seconde generazioni: “Ti chiedi mai cosa piaccia al cielo? Veniamo spinti o lasciati cadere? La fine ci mantiene onesti, sento il profumo di un mondo completo, io sono proprio dove dovrei essere”. Madame sarà la più giovane dei 26 big in gara. Un elenco che non ha sacche, quote, ma respiro: se a ispirarlo ci fosse stato un calcolo di percentuali di rispettabilità, tra i 26 big in gara sarebbero comparsi in gran copia i giovani vecchi, quelli che ogni anno riuscivano a far rilucere Patty Pravo e Ornella Vanoni, a farsi schiacciare dal confronto con loro, a farci preferire e difendere l’immutabile. Quest’anno niente Patty e niente Ornella. Quest’anno ci saranno i bravi bravissimi dei bordi, delle sottoculture, degli infiniti spazi al di là da quella, quelli che su Instagram sono celebrità, spesso senza volerlo, senza lavorarci neppure un po’, e in tv invece perfetti sconosciuti, nemmeno comprimari, quelli che a un direttore di rete fanno temere l’irreparabile non condonabile crollo dello share: quelli che hanno un volto ma non sono un volto. Il senso dell’apocalisse ha cambiato tutto: il rischio ce lo si assume perché non c’è altro da fare che rifare.

 

Quando tutto va a rotoli, la prudenza non è soltanto non risolutiva: è dannosa. E così, la direzione artistica di quest’anno ha scelto di fregarsene di accontentare gli anziani, e di dar loro Fedez anziché Albano; di non edulcorare niente; di dire: l’Italia è un paese più largo e vario di quello che abbiamo tentato di rappresentare finora, e adesso ve lo facciamo ascoltare. Da alcuni anni il festival aveva cominciato ad aprirsi, migliorare la qualità dei cantanti in gara, variegare l’offerta musicale, raffinare l’intrattenimento, ma le sue zavorre, le sue retoriche, le sue paure erano ancora tutte in piedi, ci avevano convinti d’essere insuperabili, coessenziali. E invece, bum.

 

Arriveranno, per la prima volta, Fedez e Francesca Michelin, i Coma Cose, Fulminacci, Aiello, Colapesce e Di Martino, Davide Toffolo e la band Extraliscio, Madame, Willy Peyote: tutti ragazzi che hanno una robusta carriera musicale, premi, targhe, riconoscimenti, palchi importanti, tour sold out, e che mai e poi mai avrebbero immaginato di suonare all’Ariston. Ragazzi che non hanno cercato il Festival, ma che dal Festival sono stati cercati: e chissà che suono avrà tutto questo. Il grande talento italiano convocato stavolta non è Arlecchino: è Dante. “Dipingo acquerelli e scrivo moltissimo, rime dantesche, assonanze”, ha detto Madame al Corriere, che le ha poi chiesto se davvero amasse Dante e Petrarca come si dice in giro. Risposta: “Più in generale, amo le parole, tanto che mi rende più fiera essere un’autrice che andare sul palco. Mi piace sceglierle come uno chef fa con gli ingredienti. Pesco dalla straordinaria cultura italiana. Ma guardo anche fuori dai confini. Adesso sono conquistata da Lolita di Nabokov: amo il linguaggio sessuale e pornografico. Quando è esplicito però rischia di non essere una rottura ma di non andare giù a molti”.

 

Che misura. Madame ha diciotto anni, quell’età che immaginiamo abitata da indemoniati radicali cancellatori di complimenti, seduzione, descrizione, onestà intellettuale, ironia. E invece. Vive a Vicenza, dove Luca Guadagnino ha ambientato “We are who we are”, la serie tv sull’adolescenza e il suo caos, su quel momento della vita in cui perdiamo la bussola e ci tocca capire se l’identità si sceglie o si accetta. Si chiama Francesca Calearo, ha collaborato con i Negramaro, Marracash, Dardust, Ghali. E’ stata scoperta dagli Arcade Boyz, due trentenni che giocavano su YouTube a fare reaction video (filmarsi mentre si ascolta un disco, si guarda un film, si mangia un panino, di modo che al pubblico venga offerta una specie di recensione sensoriale, immediata e, soprattutto, disintermediata).

 

Due youtuber, in sostanza, diventati rapper di reaction in reaction. Un’altra cosa che Sanremo farà: mostrare come lavorano e, soprattutto, chi sono i nuovi produttori discografici e i nuovi talent scout italiani, a un pubblico abituato a credere che la fata madrina delle nuove proposte italiane sia (e sempre sarà) Caterina Caselli. Madame fa un rap ibrido e gentile, e dei rapper ha poco o niente, così come hanno poco o niente Fedez e i Coma Cose, e questo può voler dire o che non fanno il rap o che ne stanno inventando un altro, che finalmente anche in Italia esiste una scena che si rifà a una tradizione senza scimmiottarla, usandola come punto di partenza e non come recinto. Madame scrive come parla: senza recriminazioni, rimproveri, lamentele, ritratti d’epoca, Zeitgeist. E veste in modo sobrio, spettinato, acerbo, pulito: della prima rapper italiana mainstream, Baby K, non ha niente di niente. Non condivide con lei un tema, un riferimento, un richiamo, una nota. Dove Baby K sottolinea, Madame decolora. Instagram non sembra averle impiantato neanche una fissazione, un cruccio: lo usa, naturalmente, ma lo fa in modo molto punk, senza truccarsi, senza mostrarsi al meglio.

 

E’ chiaro che vive per quello che fa, non per quello che desidera che gli altri pensino di lei. Della sua generazione ha l’idea che le cose siano fluide, dall’identità alle canzoni alle persone: “Sono individualista ma allo stesso tempo noto che i social ci hanno uniti, nel bene e nel male. Guardo al lato positivo: sono cadute barriere su razzismo e omofobia, migranti e sessualità che spesso vedo nei coetanei dei miei genitori”. Se questa generazione si occupa così appassionatamente di ambiente non è per disinteresse verso i punti cruciali dell’assetto democratico: è perché hanno superato l’idea di doverli discutere. Ciò che per noi è ancora discutibile, rimodulabile, ripensabile, per loro è dato di fatto assodato: visto si stampi e, soprattutto, si volti pagina. Il suo brano più famoso, quello che ha girato nelle radio, e dove canta da sola, si chiama “Sciccherie” e parla di una ragazza che vuole uscire, fantastica, pensa, immagina, confessa.

 

E’ una canzone sui dettagli, di dettagli, dove parlano i suoni, il testo è melodia, la ricerca è tutta musicale. E’ un rap dove la parola viene pronunciata in modo allungato e decelerato: via quel parlato affannato, affannoso e ansiogeno di certi altri, denunciatori seriali e logorroici, che scrivono pezzi mondo dove infilano tutto, da Acab all’infanzia a Primavalle, e propalano proclami di migliaia di battute che sembrano non finire mai. Quello di Madame è un rap che non vuole dire, richiamare, arrabbiarsi, denunciare: vuole godere, trasmettere una luce soft, farsi cuscino. La musica di Madame è morbida e questo la rende unica, coraggiosa: l’Italia è un paese dove si urla, contro i parchimetri, i vicini, i citofoni, i telefoni, e pure i microfoni. C’è un verso dei Coma Cose che ha dentro questa morbidezza, tutt’altro che compiacente o compiaciuta, e la spiega perfettamente: “Ammazzo i vampiri come Dylan Dog, ma con la penna sono Dylan Bob”. La musica non è sfogo: è arte. L’autofiction non serve soltanto a raccontare quanto è stronzo papà, sfortunata mamma, desolante Catanzaro, dimenticata Rozzano, dolorosa la vita, ingiusta la maestra, baro il destino, infame lo Stato. Serve a dire cosa prova un essere umano, come s’interroga, cosa spera, cosa sa fare col vento.

 

I Coma Cose sono una coppia, ma l’amore lo cantano poco, e hanno testi densi, preoccupati, coinvolti. “Chi s’accoltella, gode”, “Chi ha troppo grano attorno probabilmente è uno spaventapasseri”, “Che schifo avere vent’anni però quant’è bello avere paura”, “Di sabato non si comincia mai una rivoluzione”. Stratosferici, con il guardaroba tra gli anni Novanta e il cielo, i cappelli tra la curva dello stadio e l’Alaska. Sono cantautori, si può dire? E’ cantautore anche Fulminacci, un ventitreenne Targa Tenco, romano con genitori e zii e cugini al seguito ai concerti, uno che di social e talent non ne ha avuto bisogno: ha scritto canzoni, le ha fatte ascoltare a casa, gli hanno detto che era bravo, lui ha registrato e spedito tutto in busta chiusa a un’etichetta, la Maciste Dischi, ed è andata. Sulla copertina del suo primo disco, c’è lui che cerca di afferrare un bicchiere di aranciata che cade. Dentro, almeno una terna di singoli eccezionali, ballabili, lievi, intelligenti: nell’estate romana di due anni fa, Fulminacci era per tutti il nuovo Daniele Silvestri. Di Silvestri non ha il romanesco ma ha il verso discorsivo e la concretezza: “E’ troppo facile dire che c’hai problemi strani, spesso ad aiutarti è chi c’ha i problemi reali, quegli esseri normali, che leggono i giornali, quelli con una moglie, un lavoro, un figlio e due cani, che la notte dormono, non si confondono, che se gli parli ti rispondono, gli esseri umani”.

 

Fulminacci, come Colapesce e Dimartino, è un cantautore vicino all’indie, ma dell’indie manda in pensione le complicazioni, la rabbia. Colapesce e Dimartino sono siciliani, dal mare hanno scritto questo: “Le parole d’amore, una noia mortale, abbiamo discusso coi mostri, col vino scarso di ieri, benedetta la notte che spegne i pensieri e accende la luce”. Sull’altra riva del fiume c’è Fedez, insieme a Francesca Michelin. Da Fedez c’è da aspettarsi di tutto, una canzone brutta che si piazzerà al terzo posto facendo fischiare l’Ariston e scatenando una fantastica guerra generazionale, con i giovani a casa con il telecomando e i vecchi in sala, in prima linea – solo Sanremo può permettersi di questi paradossi – oppure, con le stesse probabilità, un flop che farà scrivere a tutti che la Rai la guardano i vecchi anche quando ci vanno gli influencer, e allora tanto vale lasciarli a casa e richiamare la vecchia guardia.

 

Quando Chiara Ferragni è andata su Rai2 a farsi intervistare da Simona Ventura, e lo share è stato più o meno da puntata di “Fuori Orario” (esageriamo), questo è successo: che tutti hanno pensato che la Rai fosse incompatibile con il presente. E invece il problema era che il passato non aveva capito di avere a che fare con il futuro. Rai Due non è Rai Uno, Amadeus non è Simona Ventura, Sanremo è Sanremo. Sarà nuovo e antico, libero e stupefacente, come questi ragazzi che da anni ormai cambiano la musica italiana. E’ giusto che lo facciano sul palco dei cantautori laureati. Finalmente.

 

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ