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La ferocia del K-Pop

Stefano Pistolini

Guida a distanza di sicurezza nei gironi finto-teneri del pop coreano, un’industria rigidamente programmata per ipnotizzare e sbancare le classifiche internazionali

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Il problema della musica dei marziani è che non possiamo ospitare un critico musicale marziano per spiegarcela. Dobbiamo arrangiarci, nel tentativo di capirci qualcosa. Perciò benvenuti nel mondo del K-Pop, il pop coreano che adesso sbanca le classifiche internazionali (sì, sussultate pure: piacciono anche da noi), che ingorga i social e conquista un mondo della musica, mai come oggi a corto proprio di conquistadores. Enorme è il rimbombo che ormai circonda la proliferazione di questo suono, al tempo stesso familiarissimo, in quanto ricalca matrici musicali scontate, e al tempo stesso misteriosamente alieno, poiché se ne percepisce la progettazione estranea alle vecchie formule empiriche che governarono l’ascesa e la caduta della scena produttiva occidentale, dove si convogliavano gli sforzi dei laboratori creativi e delle forze industriali. Il pop coreano non inventa niente, ma riusa canoni musicali preesistenti, spaziando dal pop sintetico al rap melodico, con striature di rock e funk, tutti eseguiti con millimetrici gradi di separazione tra una scuderia di produzione e l’altra. Un suono rivolto a una partecipazione sentimentale – fenomeno dunque per noi osservabile solo dall’esterno e con distacco, perché il suo consumo immersivo pretende appartenenze anagrafiche precise (14 è l’età buona, a occhio), geografiche (è un ritmo urbano), ma soprattutto tribali, categoria, quest’ultima, nelle quale o ci sei o ci fai. Quindi, se volete condividere l’esperienza diretta del K-Pop, un giro tra le playlist di Spotify e uno ancora più spassoso su YouTube, dove il K-Pop infrange record come grissini, sono i modi migliore per effettuare il sopralluogo. Per quanto, se state leggendo queste pagine, è ottimistico pensare che anche solo una minima percentuale di voi, giusto quelli col pallino per le sottoculture, reggeranno l’impatto coreano sul medio termine, superata l’abbrivio della curiosità turistica nei primi 5 minuti. Perciò di che vogliamo parlare? Un po’ di fantascienza, come dicevamo in apertura, in un’ambientazione “Gattaca”, nella quale il fattore musicale, anzi, quello del “piacere musicale”, viene offerto al consumatore con procedure rinnovate, prive di incognite, scoperte o di quelle sorprese che, ad esempio, nell’ultimo Novecento rivelarono le fulminanti carriere, chessò, di Madonna, ragazzotta ambiziosa di Detroit, o degli U2, gruppetto di losers dublinesi.

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Il problema della musica dei marziani è che non possiamo ospitare un critico musicale marziano per spiegarcela. Dobbiamo arrangiarci, nel tentativo di capirci qualcosa. Perciò benvenuti nel mondo del K-Pop, il pop coreano che adesso sbanca le classifiche internazionali (sì, sussultate pure: piacciono anche da noi), che ingorga i social e conquista un mondo della musica, mai come oggi a corto proprio di conquistadores. Enorme è il rimbombo che ormai circonda la proliferazione di questo suono, al tempo stesso familiarissimo, in quanto ricalca matrici musicali scontate, e al tempo stesso misteriosamente alieno, poiché se ne percepisce la progettazione estranea alle vecchie formule empiriche che governarono l’ascesa e la caduta della scena produttiva occidentale, dove si convogliavano gli sforzi dei laboratori creativi e delle forze industriali. Il pop coreano non inventa niente, ma riusa canoni musicali preesistenti, spaziando dal pop sintetico al rap melodico, con striature di rock e funk, tutti eseguiti con millimetrici gradi di separazione tra una scuderia di produzione e l’altra. Un suono rivolto a una partecipazione sentimentale – fenomeno dunque per noi osservabile solo dall’esterno e con distacco, perché il suo consumo immersivo pretende appartenenze anagrafiche precise (14 è l’età buona, a occhio), geografiche (è un ritmo urbano), ma soprattutto tribali, categoria, quest’ultima, nelle quale o ci sei o ci fai. Quindi, se volete condividere l’esperienza diretta del K-Pop, un giro tra le playlist di Spotify e uno ancora più spassoso su YouTube, dove il K-Pop infrange record come grissini, sono i modi migliore per effettuare il sopralluogo. Per quanto, se state leggendo queste pagine, è ottimistico pensare che anche solo una minima percentuale di voi, giusto quelli col pallino per le sottoculture, reggeranno l’impatto coreano sul medio termine, superata l’abbrivio della curiosità turistica nei primi 5 minuti. Perciò di che vogliamo parlare? Un po’ di fantascienza, come dicevamo in apertura, in un’ambientazione “Gattaca”, nella quale il fattore musicale, anzi, quello del “piacere musicale”, viene offerto al consumatore con procedure rinnovate, prive di incognite, scoperte o di quelle sorprese che, ad esempio, nell’ultimo Novecento rivelarono le fulminanti carriere, chessò, di Madonna, ragazzotta ambiziosa di Detroit, o degli U2, gruppetto di losers dublinesi.

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La musica leggera occidentale al confronto è fatta a casaccio. Questa è una categoria merceologica studiata all’estremo


     

No, il K-Pop non manda in orbita nuovi prodotti sperando d’intercettare la curiosità o la libido del pubblico, non agisce nello stesso territorio della Motown o della Virgin Records: il K-Pop aderisce scientificamente a un pacchetto di esigenze prioritarie rilevate nel pubblico, proponendo confezioni alchemiche, artificialmente assemblate per un target definito. Ovvero il K-Pop è il regno della precognizione del successo musicale, categoria non più enigmatica, ma interamente bonificata: qui non ci sono speranzosi talenti con la chitarre a tracolla, bensì aziende miliardarie specializzate - SM Entertainment, JYP Entertainment, YG Entertainment - che depositano sul mercato delle creature covate alla bisogna, quasi sempre boy band e girl band vocali, ciascuna delle quali accuratamente progettata e assemblato a tavolino, per nutrire i desideri di una particolare fetta di pubblico. Ormai i gruppi “ufficiali” del K-Pop sono centinaia, maschili e femminili, sovente dotati di un organico numeroso, al punto da prevedere dei relativi sottogruppi, che si staccano periodicamente dall’entità principale per intrattenere una sezione ancora più mirata di consumatori, in un angolo del mondo, o intercettandone un preciso orientamento stilistico (i celebri EXO, ad esempio, regolarmente si smembrano in due parti, una per il mercato sudcoreano e l’altra per quello cinese). La genesi dei gruppi è interamente gestita dalle case madri: ci sono infinite selezioni a cui partecipano migliaia di imberbi candidati, un po’ come ai nostri talent show, solo in modo infinitamente meno caotico e più pilotato. I pochi fortunati prescelti affrontano un periodo di formazione e training che dura anni, durante il quale vengono sottoposti a ogni genere di scrutinio, in atmosfere di forte competizione. I futuri artisti, allorché imboccano il percorso che li porterà sotto i riflettori, sono quasi sempre ancora studenti: per anni, usciti da scuola, ogni giorno passeranno il resto del tempo studiando canto, danza, lingue straniere e comportamento. In caso di malattia o incidenti verranno rimpiazzati e in caso di insubordinazione, scandali o condotte irregolari verranno cacciati senza appello. Alla fine dell’interminabile addestramento, se giudicati qualitativamente pronti, verranno promossi allo status di “idoli”, come i ragazzini coreani chiamano i membri di una band di K-Pop, collocati in una formazione nascente (o scelti per soppiantare il membro di un gruppo già in circolazione), iniziando vorticose carriere a base di fittissimi calendari d’impegni, concerti, esibizioni, promozioni, video, nuove produzioni. Le loro performance andranno ad alimentare il target di mercato per il quale sono stati “costruiti”, in competizione con un numero circoscritto di antagonisti. Dunque, dire che sono solo canzonette, è a dir poco improprio. E paragonare tutto ciò all’approssimativa industria dello spettacolo che ha governato la musica leggera occidentale, è insulso. Qui non si parla di una causa, ma di un effetto.

   


Videoclip magnificamente coreografati, colorizzazioni sbalorditive e un immaginario che richiede adesione totale


      

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La nascita del genere viene fatta coincidere col debutto dei Seo Taiji & Boys nel ’92, ma è con l’inizio del nuovo millennio che gruppi come Big Bang, Girls’ Generation e ShiNee si affermano e cominciano a produrre utili di peso. Da lì, in meno di trent’anni, il K-Pop deflagra laddove la vecchia industria discografica perdeva colpi: nelle scelte dei nuovi teenagers. Poi con Psy e il celebre tormentone “Gangnam Style” (2012), di K-Pop si comincia a parlare anche nel resto del mondo. Ma Psy, paradossalmente, è un personaggio capitato un po’ per caso in questa vicenda, un vero “fuori età”, uno gnomo approssimativo spuntato a margine di un piano industriale assai più ambizioso: un K-Pop contagioso, generato in modo algoritmico da una catena di produzione capace di predisporre vocalità perfette, danze perfette, video perfetti e un perfetto divertimento. E, prima di tutto, sfornando “idoli” a ripetizione, bambole pronte per gli sguardi maschili e femminili, addestrate a gestire il loro personaggio e preparate a interpretare una vita da popstar e da modelli di ruolo. Ovviamente tutti e tutte bellissimi, come le bambole appunto. Con desiderabili tratti somatici, resi quasi irreali perfetti da una miriade d’interventi estetici, pubblicizzati e festeggiati orgogliosamente dai fans, in un paese in cui la chirurgia plastica è completamente sdoganata.

   

Oggi il K-Pop è una macchina ben oliata, che viaggia a pieno regime: attraverso il controllo esercitato sugli artisti – vincolati da contratti rigidissimi fin da bambini – le aziende musicali sudcoreane gestiscono nei minimi particolari l’immagine globale del K-Pop. Una volta che un gruppo di idoli è addestrato alla perfezione, le aziende gli forniscono canzoni ad hoc, lo commercializzano, lo mettono in TV, lo mandano in tour, determinano ogni tappa del percorso, inclusi i comportamenti pubblici e privati e perfino l’addio della band, al traguardo dell’età adulta e all’ultimo album, accompagnato dalla fanfara della commozione e corredato da lacrimevoli apparizioni speciali.

  

I BTS (acronimo di Bangtan Sonyeondan, “boy-scout a prova di proiettile”) sono i Beatles del K-Pop, sebbene in un mondo musicale che viaggia su un’orbita diversa da quella che fu di Lennon e McCartney. Qualsiasi cosa facciano i BTS è corredata da cifre iperboliche di successo che vi lasciamo immaginare, tanto più dal momento che ormai sono su base planetaria. Se desiderate vederli in azione, c’è un doc ampiamente agiografico che li racconta, “Burn the Stage”, e perfino una specie di prontuario del K-Pop realizzato da Netflix (nella serie “In Poche Parole”), in cui primeggiano da protagonisti. In questo momento i BTS non hanno concorrenza, tutto al più avvicinati dai Super M, il supergruppo composto da idoli provenienti da quattro diverse band, anch’esso gratificato da una quasi paragonabile isteria adolescenziale. Pur cantando in coreano, i BTS si collocano in perfetta risonanza coi gusti e gli interessi della loro generazione, sostenuti da videoclip magnificamente coreografati, da colorizzazioni sbalorditive e da un immaginario post-manga che richiede totale adesione esistenziale. I membri del gruppo sono il focus dello show: presenza scenica, look, identificazione. I fans dei BTS sono radunati sotto la sigla “Army”, l’esercito della band pronto a rispondere e amplificare ogni appello degli idoli. Perfino quando si parla di cose serie: allorché di recente i BTS hanno sposato pubblicamente la causa del “Black Lives Matter”, l’esercito ha reagito subito, raccogliendo una somma milionaria da mettere a disposizione dell’organizzazione. Anche se non tutti i fans del K-Pop sono pronti a essere soldatini: “Sasaeng” è la parola coreana che indica i seguaci ossessivi, quelli pronti a spingersi oltre il lecito, i ragazzini e le ragazzine assatanate, disposti a tutto per un souvenir dell’idolo preferito. Un emergente fattore di disordine sociale sfuggito alla severa programmazione dell’industria.

   


I ragazzini che passano la selezione dopo la scuola studiano canto, danza, lingue e come stare al mondo quando saranno celebri


    

I BTS hanno contribuito a diffondere tra i giovani coreani un inedito modello di mascolinità, più ambiguo, androgino, trasparente, gender fluid: capelli verdi, bianchi, rosa, abiti pastello, make up. Nei testi affrontano temi come la fragilità, l’ansia, l’insicurezza, in un repertorio “Aegyo”, come dicono laggiù, ovvero “supercarino”, corredato da sguardi languidi, labbra imbronciate, pose col segno della pace e un diluvio di gattini. Il trionfo della finta innocenza.

  

Perciò, l’avrete capito: il K-Pop non è un genere musicale. È un settore merceologico, veicolato da boy band e girl band per varie categorie di consumatori. A ciascuno la sua. Tra le ragazze del K-Pop troverete di tutto: le timide studentesse che cantano di cotte vertiginose, le irrequiete a caccia di un uomo vero, le ribelli che rifiutano la convalida maschile. Sentirete cantare a ripetizione della contrapposizione “verginità / tentazione”, quanto nelle coreografie inscenate dai maschietti ritornerà il sempreverde dualismo alla “West Side Story”, tra i tipi cool e i maledetti. Alla fine, per il pubblico il richiamo irresistibile sarà sempre quello della complicità, per quanto sia preconfezionata: anche perché gli idoli non si stancano mai di incoraggiarli, dimostrando totale intimità verso i fans, in particolare in occasione dei concerti o delle apparizioni televisive. Un campionario studiato di atteggiamenti improntati alla tenerezza, molto più che all’erotismo, tra baci sulle guance, infiniti abbracci, tutto un tenersi per mano, giocare coi capelli, colossale messa in scena di empatia puberale o meglio, pre-sessuale. Del resto, per contratto gli idoli non possono avere relazioni sentimentali durature: farebbero troppo soffrire i loro fans, la cui vita non avrebbe più senso se dovessero scoprire che il favorito ne ha scelta una o uno in particolare, mettendo da parte gli altri. DI sicuro non quello che vuole un’industria ad altissimo tasso consumistico.

   


  Sguardi languidi, labbra imbronciate, pose col segno della pace e un diluvio di gattini. Il trionfo della finta innocenza


   

Se infine a questo punto con impazienza chiedete “vabbé, ma qui quand’è che si parla di musica?”, purtroppo non possiamo accontentarvi. Non disponiamo né della sensibilità, né degli strumenti di percezione necessari. Ci piacerebbe, s’intende, ma il tempo è tiranno e noi non abbiamo più in dotazione orecchie che possano degnamente ascoltare il K-Pop. Anche voi, peraltro, diffidate da chi vi sottoponga guide ragionate all’ascolto di questa musica. In realtà, noi siamo tutti degli oppa, o delle unnie, che nel linguaggio sensibilissimo alle differenze anagrafiche dei giovani coreani, significa “fuori età”, al maschile e al femminile. Abbiamo avuto il nostro di pop, coi suoi alti e bassi. Adesso, davanti a questa bengodi, possiamo solo schiacciare il naso sul vetro e seguire, battendo il piedino, questi balletti stupendamente sincronizzati.

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