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Nino, re di Napoli

Francesco Palmieri

“Sono un poeta che non sa parlare”, dice dall’alto dei suoi sessant’anni. “Ho vissuto sulla mia pelle un razzismo musicale ma le mie canzoni hanno conquistato milioni di fan”. Intervista a Nino D’Angelo

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Gaetano va a pescare ogni mattina, d’estate come adesso e in tutte le altre stagioni. Gaetano D’Angelo, ossia Nino, pesca note e parole e il suo mare è il pianoforte. “Stendo la rete e se non prendo niente me ne vado e mi faccio il caffè. Ma se pazzianno sulla tastiera sento uscire qualcosa, allora non mi muovo e scrivo. Sono un compositore che non legge la musica, sono un poeta che non sa parlare. Ma la mia forza sono i testi e il mio successo ha battuto il pregiudizio di chi senza conoscerli diceva: - Ah vabbè, ma è Nino D’Angelo”.

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Gaetano va a pescare ogni mattina, d’estate come adesso e in tutte le altre stagioni. Gaetano D’Angelo, ossia Nino, pesca note e parole e il suo mare è il pianoforte. “Stendo la rete e se non prendo niente me ne vado e mi faccio il caffè. Ma se pazzianno sulla tastiera sento uscire qualcosa, allora non mi muovo e scrivo. Sono un compositore che non legge la musica, sono un poeta che non sa parlare. Ma la mia forza sono i testi e il mio successo ha battuto il pregiudizio di chi senza conoscerli diceva: - Ah vabbè, ma è Nino D’Angelo”.

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A 63 anni compiuti un mese fa, con oltre quarant’anni di carriera, milioni di dischi venduti e centinaia di canzoni, Nino ha ancora molta voglia di cantare e raccontarsi. “Perché sono riuscito a cambiare tante volte come mai nessuno. Prendi gli artisti di successo negli anni Ottanta: si sono ripetuti com’erano allora. Io mi sono saputo trasformare, però ho pagato più di tutti il pregiudizio del razzismo musicale. Ma più ne sono stato vittima e più ho avuto successo”. Lo sdoganò nei primi anni Novanta Goffredo Fofi, eppure non bastò: “Alla dogana stanno ancora valutando la documentazione per decidere se posso passare oppure no”.

   

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Padre incontestato dei neomelodici, nutrito dalle sceneggiate di Mario Merola, cultore della voce di Sergio Bruni, stimato dal Magister primus Roberto De Simone, Nino D’Angelo è l’icona napoletana vivente per i fan e per i detrattori, ma quando celebrò i 60 anni con un concerto che affollò lo Stadio San Paolo, invitò alla festa anche i rapper partenopei.

    


   “Ho voluto essere napoletano a tutti i costi, con i pregi e i difetti. Sono napoletano anche quando cammino. E ne provo una fierezza immensa”


    

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Pure ad attraversare la dogana non basterà: “Sai perché? Perché ho voluto essere napoletano a tutti i costi, con i pregi e i difetti, ma io sono napoletano anche quando cammino. E ne provo una fierezza immensa. Ci sono due categorie: i cantanti di Napoli e i cantanti napoletani. I primi appartengono alla musica italiana, per esempio Massimo Ranieri, Edoardo Bennato, anche Gigi D’Alessio, che all’inizio era come me poi è diventato pop. Io appartengo alla seconda categoria: quella dei cantanti napoletani. Quando dieci anni fa portai a Sanremo con Maria Nazionale Jammo ja’, qualcuno lamentò di non capire il testo dialettale: Simmo nate cu’ duje destine,/Simm’’a notte e simmo ‘a matina/Simmo rose e simmo spine… Non me n’importa, questa è la mia lingua e chi critica non sa che il mercato delle mie canzoni è sempre stato grande a Milano, a Catania o a Palermo, che è la città dove ho ottenuto i primi guadagni e i primi successi quando a Napoli non ero nessuno”.

   

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Oggi verso i rapper che s’esprimono in napoletano pregiudizi non ce ne sono: “Perché adesso cantare in dialetto ‘si porta’, è quasi un vantaggio. Quando ho cominciato io era una limitazione. Ti rinchiudeva in un ghetto musicale tranne che per i classici della tradizione, che erano e restano inattaccabili”. De Simone sostiene che la canzone napoletana sia morta nel periodo del sindaco Lauro, quando il Festival di Napoli la trasformò in musica leggera. “Quel mondo era finito, ripeteva se stesso. La mia rivoluzione fu ’Nu jeans e ‘na maglietta, perché finalmente si tornava a parlare d’amore in un repertorio occupato da brani che parlavano di pistole, coltelli e guapparie. Fu un rovesciamento epocale. Questa rivoluzione nel rap non la vedo. Senza nulla togliere alla bravura di Clementino, Rocco Hunt e gli altri, è un genere che ha fatto presa da noi quando in America era già vecchio. E poi i rapper sono parolieri che usano le rime, mentre il poeta s’esprime con le metafore”.

     


“Parlando napoletano a casa io scrivevo male i temi, ma l’insegnante diceva che esprimevo concetti molto più grandi di me”


     

Poco importa che a volte non vengano capite: Tu sì ‘a vita mia, un pezzo che i più giovani appassionati di Nino dedicano alle innamorate, non parla d’amore ma di lui che si rivolge a se stesso. “E’ una canzone autobiografica, come se cantassi allo specchio e mi raccontassi a me”. Ed è lui “sotto ‘a nu cielo ‘e parole” mentre il vento scompiglia le lenzuola e dalla finestra “s’affacciavano canzone”. “Ho scritto Terranera, ’O schiavo e ‘o rre, Senza giacca e cravattaE allora che ve ne fotte se sbaglio un congiuntivo in italiano? La mia lingua è il napoletano. Non sono un intellettuale, ma una persona intelligente che pensa pure troppo e questo a volte è un male, se pensi troppo finisci per prendere lo Xanax”.

   

Nato povero nel quartiere periferico di San Pietro a Patierno, Nino D’Angelo resta nel 2020 grazie ai film e alle canzoni il monarca sentimentale più longevo di una parte di Napoli, quella popolare. E ne enfatizza ancor più la differenza con la parte borghese (dualità stancante ma innegabile su cui s’è fossilizzata l’intera generazione dei La Capria e dei Ghirelli, e da cui s’esce solo facendo finta di niente). “Un giorno spero di rompere il pregiudizio e di arrivare non solo alla Napoli di Porta Capuana, ma a quella di piazza Vanvitelli. Sto con la prima e conosco la seconda, sono un ricco tra i poveri e non è stato facile però è più bello. Facile è stare dalla parte della gioia, però è una finta gioia. Chi ha tutto lo dà per scontato, è normale che abbia una bella casa o la macchina nuova. Io sono un privilegiato perché ero nato per non essere, invisibile per destino, ma ho attraversato il muro e sono arrivato dall’altra parte. Dico la verità: non mi piace proprio stare dove si vive per diventare i numeri uno. Io sono la vittoria di chi ha perso sempre”.

    

Lo capì benissimo la sera del 5 luglio 1998, quando conquistò il David di Donatello come migliore musicista col film Tano da morire: “Fu un riconoscimento che uno come me non s’aspettava. Tornai a casa e mi tolsi le scarpe, giravo scalzo con lo smoking e il premio in mano e piangevo. Dissi a mia moglie Annamaria: Quanta strada aggio fatto… Andai al pianoforte e trovai di getto il nucleo di Senza giacca e cravatta, la canzone che mi rappresenta di più nel mondo. Ne hanno prodotto una versione in romeno, si canta in Ucraina, in Kazakistan… Quando Pino Daniele la sentì mi telefonò: ‘Ecco, questo devi fare tu’”.

      


Nato povero nel quartiere periferico di San Pietro a Patierno, resta il monarca sentimentale più longevo della Napoli popolare


      

La sua biografia s’intreccia con quella dei napoletani più amati degli ultimi quarant’anni, che diventarono qualcuno quando Gaetano era già Nino D’Angelo. Richiama ricordi e aneddoti forse non ancora raccontati. Per esempio proprio Pino Daniele: “E’ stato l’artista napoletano di maggior talento dell’ultimo mezzo secolo e l’apporto americano alla sua musica me lo fa immaginare più nato ai Quartieri Spagnoli che a Santa Chiara, più internazionale insomma… Quando organizzò il grande concerto del 2008 e m’invitò, volevo cantare Terra mia ma lui disse: No, devi fare la canzone della vecchia, cioè Donna Cuncetta, che aveva dedicato alla nonna. Disse che la potevo eseguire solo io perché ho il canto a fronna nella voce”.

   

Poi c’è Massimo Troisi, che per D’Angelo si associa a un capitolo importante: il calcio e l’amore per il Napoli, per cui lui resterà sempre Quel ragazzo della curva B e l’autore di un inno ufficioso della squadra. “Massimo mi vide giocare allo stadio San Ciro di Portici. Ero bravino a pallone, stavo dietro le punte. Così quasi mi costrinse a entrare nella Nazionale degli attori, allenata da una vecchia gloria della Roma: Giacomino Losi. Io ero Nino D’Angelo ma davanti a Troisi, alla sua intelligenza rara, tornavo a sentirmi solo Gaetano. Quando mi trasferii a Roma, dopo gli allenamenti andavamo a mangiare sulla Cassia, a un ristorante che si chiamava La Ciotola. Mi faceva ridere perché anche se chiedeva un piatto di spaghetti aglio e olio era uguale al Troisi dei film. Lui s’arrabbiava: ‘Che ridi? Come dovrei ordinare un piatto di spaghetti?’”.

     

Al calcio nel 2017 D’Angelo ha dedicato il brano L’Ultrà per Ciro Esposito, il tifoso di Secondigliano ucciso prima della finale di Coppa Italia a Roma nel 2014. Meraviglioso l’arrangiamento: “E’ di Franco Battiato, forse una delle ultime cose che ha fatto. Andai a casa sua per parlare di musica, invece appena arrivai volle farmi vedere i suoi quadri. Una persona raffinata, un grande intellettuale: aveva libri dappertutto, finanche in cucina. Però da lui si mangiava solo riso, ne aveva di tutti i tipi: desideravo tanto un piatto di pasta, ma niente. Solo riso. Ecco, per parlare di poesia voglio dire di una canzone come La cura: quando la sento m’incazzo. Perché avrei voluto scriverla io. Questa è poesia: un pullman che fa viaggiare le emozioni dentro l’anima degli altri. Un mezzo. Entri in una persona senza conoscerla, senza toccarla. Perciò diventando vecchi è più facile piangere che ridere: perché hai capito che i sentimenti sono i valori veri per cui vale la pena vivere e la vita è un cammino di sentimenti. Quando ti svegli la mattina e vedi la prima lenza di sole entrare dalla finestra dici: ma, quant’è bella la vita!”.

    

L’emozione più tagliente la sentì al Bataclan di Parigi, dove cantò tre anni dopo la strage fatta dai terroristi dell’Isis nel 2015: “Intonai Qual’ammore pensando alle immagini che avevo visto in tv. Non sapevo se sorridere o piangere quando mi applaudirono. Poi sentii scendere le lacrime”. Anche al concerto del San Paolo aveva il groppo in gola: “All’inizio non volevo più cantare, solo piangere: vedevo mia madre dentro le canzoni, vedevo quelli come me che non ce l’hanno fatta. Per loro ho scritto Mamma Preta, che è dedicata a Forcella. Fu nel periodo che risollevai il Teatro Trianon dal fallimento, quando mi nominarono direttore artistico”. E mamma pietra, l’antico ceppo di Forcella, è poesia contro la rassegnazione: “Ma cca nisciuno vo’ cagnà niente /Pecché niente è tutte cose”, dove c’è chi va “a sfidà n’ata jurnata /c’accummencia già fernuta” “mentre ‘a voce d’a pacienza / s’è stancata ‘e se stancà”. “Perciò la cultura in certi luoghi è una medicina, e come la medicina ne hanno diritto tutti, perché chi è ignorante non sa i danni che può fare all’umanità. Il diritto alla cultura è come quello alla salute: bisogna garantirlo”. A scuola la professoressa d’italiano lo chiamava “il poeta che non sa parlare”, da cui Nino trarrà il titolo di un libro e uno spettacolo teatrale (“alla Gaber, dove oltre che cantare mi racconto e andrà in scena l’anno prossimo”): “Parlando napoletano a casa io scrivevo male i temi, ma l’insegnante diceva che esprimevo concetti molto più grandi di me”.

E chi se ne fotte dei congiuntivi.

   

“Pensa piuttosto a come vanno oggi le cose: vuoi far parlare di te? Vuoi diventare celebre? Basta che hai il coraggio di fare una bella figura di merda in tv e vedrai che riesci. Oggi c’è gente che pur di dire: ‘io esisto’ farebbe di tutto. O che s’attacca a tutto: anche in politica, prendi Salvini. Quando era alleato con i Cinque stelle tentava di rubare i loro voti al Sud, però non è riuscito a fare il pacco ai napoletani. O prendi quello, come si chiama? Scanzi: ha capito che facendo il contrario, cioè il nemico di Salvini, poteva essere famoso. Funziona così”.

    


  “Questa è poesia: un pullman che fa viaggiare le emozioni dentro l’anima degli altri. Un mezzo. Entri in una persona senza conoscerla”


    

Nell’ordine disordinato di una conversazione, specialmente con un cantante, a volte i sentimenti più profondi si capiscono anche dal tono della voce. Si fa sommesso quello di Nino D’Angelo, scendendo in un’ottava scura, quando nella sua galleria di personaggi evoca Mario Merola. Anzi don Mario, “perché gli ho sempre parlato con il voi”: “A teatro aveva un carisma che vedevi solo lui. E’ l’unico attore che non si concentrava. Giocava a scopa in camerino finché non lo chiamavano in scena: ‘Non toccare le carte, ammazzo ’o malamente e torno!’. Quando andavo a casa sua non mi offriva un caffè, ma un piatto di maccheroni anche se era mattina: ‘Magna, ca te sì fatto sicco sicco!’. Essendo un accanito giocatore del Lotto, pretendeva da me un numero per l’ambo: ‘Tengo nu nummero’, diceva, come se fosse sicuro che usciva ma gli mancava il secondo. Io non glielo davo, per paura che era quello sbagliato…”.

  

E allora bisogna dirlo che Nino D’Angelo, su suggerimento di Luciano De Crescenzo che gli voleva bene, scoprì la storia di Vincenzino Russo, poeta analfabeta, ciabattino che scrisse pochissime canzoni perché morì di tisi a ventotto anni però quelle pochissime si chiamano, ad esempio, ’I te vurria vasà e Maria, Marì!. Sono canzoni dedicate alle donne dove le donne dormono sempre. (Perché? S’incaponiva nel quesito De Crescenzo). Gliele musicò Eduardo Di Capua, autore di ’O sole mio, che coccolava Vincenzino pensando fosse un assistito, cioè uno di quelli che parlano nei sogni coi fantasmi e ricevono le dritte del Lotto. Di Capua per tutta la vita, come Merola a Nino, gli chiese il numero mancante. Ricevette solo canzoni. Se certe cose si ripetono, forse è perché i napoletani si reincarnano napoletani.

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