PUBBLICITÁ

L’Italia di Mozart

Marina Valensise

I tre viaggi nel nostro paese del giovane Wolfgang con suo padre furono un trionfo di critica e pubblico. Le lettere che li raccontano

PUBBLICITÁ

Mozart non aveva nemmeno quindici anni quando mise in scena al Regio Teatro Ducale di Milano il “Mitridate re del Ponto”, la sua prima opera seria. Era la sera di Santo Stefano del 1770. Il Maestrino non era più il bambino prodigio che per anni, guidato dal padre, si era esibito davanti alle corti e ai salotti di mezza Europa, ma un giovanottello biondo e minuto, alto 1 metro e 63, l’incarnato pallido, gli occhi cerulei, il volto butterato dal vaiolo, le mani piccole: “Non mostrava il genio e lo spirito di cui il buon Dio lo aveva dotato”, scriverà la sorella Nannerl. Eppure era stato proprio lui a musicare quell’opera ispirata alla tragedia di Racine, tradotta in italiano da Giuseppe Parini. E adesso si trovava non solo a inaugurare la principale stagione del teatro più importante di Milano, ma a dirigere lui, debuttante straniero, musicisti esperti e cantanti famosi. Eppure, anche se per lui era un terreno sconosciuto, precluso peraltro anche al padre, se la sarebbe cavata benissimo, ripagando in pieno la fiducia del governatore della Lombardia.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Mozart non aveva nemmeno quindici anni quando mise in scena al Regio Teatro Ducale di Milano il “Mitridate re del Ponto”, la sua prima opera seria. Era la sera di Santo Stefano del 1770. Il Maestrino non era più il bambino prodigio che per anni, guidato dal padre, si era esibito davanti alle corti e ai salotti di mezza Europa, ma un giovanottello biondo e minuto, alto 1 metro e 63, l’incarnato pallido, gli occhi cerulei, il volto butterato dal vaiolo, le mani piccole: “Non mostrava il genio e lo spirito di cui il buon Dio lo aveva dotato”, scriverà la sorella Nannerl. Eppure era stato proprio lui a musicare quell’opera ispirata alla tragedia di Racine, tradotta in italiano da Giuseppe Parini. E adesso si trovava non solo a inaugurare la principale stagione del teatro più importante di Milano, ma a dirigere lui, debuttante straniero, musicisti esperti e cantanti famosi. Eppure, anche se per lui era un terreno sconosciuto, precluso peraltro anche al padre, se la sarebbe cavata benissimo, ripagando in pieno la fiducia del governatore della Lombardia.

PUBBLICITÁ

 

Non aveva nemmeno quindici anni quando mise in scena al Regio Teatro Ducale di Milano il “Mitridate re del Ponto”, nel 1770

Era successo infatti che appena arrivato a Milano si era a conquistato subito la protezione del conte Karl Joseph von Firmian. Il plenipotenziario austriaco, dopo averlo finalmente ricevuto e averne organizzato varie esibizioni, gli aveva dato l’incarico di scrivere quell’opera su libretto di Vittorio Amedeo Cigna Santi, cinquantenne poeta torinese. Firmian non solo era un mecenate generoso, che locupletò il ragazzino con 100 gigliati d’oro (corrispondenti a più di un anno di stipendio di suo padre, vicemaestro di cappella dell’arcivescovo di Salisburgo), ma era anche il cugino dell’Obersthofmeister (maggiordomo maggiore) alla corte di Salisburgo, e nipote del primo arcivescovo per il quale Leopold Mozart aveva lavorato.

PUBBLICITÁ

 

Forti di queste raccomandazioni, padre e figlio erano arrivati a Milano in gennaio, dopo aver fatto tappa a Rovereto, Verona, e Mantova. Avevano trovato subito alloggio al convento degli Agostianiani in piazza San Marco, che oggi non esiste più, demolito negli anni Trenta per costruire la nuova sede del Liceo Parini, il Regio Ginnasio di Brera creato da Maria Teresa dopo la soppressione dell’ordine dei Gesuiti: “Non che vi godiamo di molta libertà, no! Ma vi stiamo comodi, sicuri e vicini a sua Ecc. il conte Firmian”, scriverà Leopold Mozart il 26 gennaio 1770 alla moglie Marie Anne, rimasta con la figlia a Salisburgo. “Abbiamo tre grandi stanze degli ospiti. Nella prima accendiamo il fuoco, desiniamo e riceviamole visite; nella seconda dormo io, e vi sta il baule; nella terza dorme il Wolfg. E vi stanno gli altri piccoli bagagli. Dormiamo su quattro buoni materassi ciascuno, e ogni notte il letto viene riscaldato; sì che il Wolfg è sempre contento di andare a dormire. Abbiamo uno dei frati, frater Alphonso, a nostra disposizione, e ci troviamo proprio bene”. Non sapevano quando sarebbero rimasti a Milano, ma lì, dopo sei settimane di peripezie, avevano trovato finalmente pace, accolti amichevolmente dal segretario del governatore Leopold Troger, la cui famiglia a Salisburgo aveva abitato per qualche tempo di fronte a casa loro nella Getreidegasse.

 

Quel viaggio in Italia fu il primo e il più lungo dei tre che i Mozart fecero tra il dicembre 1769 e il marzo 1773, percorrendo tutta la penisola

Quel viaggio in Italia fu il primo e il più lungo dei tre che i Mozart fecero tra il dicembre 1769 e il marzo 1773, percorrendo tutta la penisola da Rovereto a Napoli, e poi da Napoli a Milano ripassando da Roma, per risalire attraverso Terni, Spoleto, Foligno, Loreto, Pesaro, Rimini e Bologna e Parma. Pure degli altri due viaggi che seguiranno tra l’agosto e il dicembre 1771, e tra l’ottobre 1772 e il marzo 1773, sappiamo tutto, o quasi tutto, quello che c’è da sapere. Il Mozarteum ha pubblicato tutta la corrispondenza della famiglia Mozart, l’epistolario musicale più ricco e rilevante del Settecento, con un’edizione in otto volumi apparsi tra il 1962 e il 2000. L’anno scorso è uscita in Italia la tradizione del secondo volume che riguarda giustappunto quei viaggi (“Lettere della famiglia Mozart”, vol. II. I viaggi in Italia, a cura di Cliff Eisen, Il Saggiatore 2019). E quest’anno poi, sempre dal Saggiatore, Sandro Cappelletto, musicista e storico della musica, ha pubblicato un bel saggio (“Mozart. Scene dai viaggi in Italia”, sempre dal Saggiatore, 350 pp., 38 euro), che integra con una messe di informazioni la ricostruzione giorno per giorno, quasi ora per ora, di quel periplo favoloso.

PUBBLICITÁ

 

PUBBLICITÁ

L’Italia infatti era una meta più che ambita per il musicista ansioso e non poco paranoico che era Leopold Mozart. Violinista, compositore e autore di un manuale di violino, Leopold era soprattutto educatore e impresario dei due figli talentuosi, che da anni, vessato dalle umiliazioni e dai sospetti di un complotto ai suoi danni, sfruttava senza ritegno portandoli in giro per tutta l’Europa, per sfuggire all’angustia e alle frustrazioni salisburghesi. L’Italia, patria delle arti, della musica, della bellezza, era irresistibile ai suoi occhi. “Nelle arti, nel canto, nella pittura, nell’architettura e nella capacità di costruire bei palazzi, nessuno li sorpassa gli italiani”, aveva letto nel manuale di geografia che usava da studente all’Università benedettina di Salisburgo, dove, in fuga dalla natia Augusta e da un destino da giurista, si era trasferito per seguire i suoi interessi musicali. “Come sono gli italiani? In generale, sono molto intelligenti e amano l’erudizione, l’eloquenza, la poesia e il teatro. Per coltivare tali passioni, organizzano riunioni fra studiosi nelle quali si tengono lezioni o si legge una dissertazione, e di tanto in tanto si fa anche della musica. Dedicano molto tempo allo studio dell’antichità”, spiegava lo storico filosofo cattolico, Anselm Desing, autore di quel manuale del 1750 e suo professore di poetica, matematica, etica e storia.

 

PUBBLICITÁ

A Salisburgo, del resto, non solo gli italiani erano un mito, ma l’Italia era di casa. Oltre ai forti legami dell’arcidiocesi con Roma, c’erano gli intensi rapporti delle famiglie dell’aristocrazia coi vari rami dislocati nei territori transalpini dell’impero asburgico. E poi c’erano i maestri di cappella e di corte, come il cremonese Tiburtio Massaini, o il veneziano Antonio Caldara, considerato un genio superiore a Johann Sebastian Bach, e c’era soprattutto il continuo via vai a fini di perfezionamento dei tanti musici in servizio alla corte. Fu così che dopo esser stato in tournée con moglie e figli a Monaco, a Vienna, in Germania, in Francia, nei Paesi Bassi austriaci, in Inghilterra e in Svizzera, col consenso dei suoi superiori, Leopold Mozart si decise finalmente a valicare le Alpi e nel dicembre 1769 partì col figlio tredicenne.

  

Il loro fu un viaggio impegnativo, con tappe di 20-30 chilometri al giorno, cambio di “sedia” alle varie stazioni di posta, strade spesso dissestate, sbalzi e scossoni continui, e poi soste notturne in locande improbabili, freddo cane, geloni alle mani, pasti a prezzi esorbitanti. Partiti da Salisburgo il 13 dicembre, i Mozart impiegarono dieci giorni per arrivare a Rovereto. L’indomani festeggiarono il Natale con un pranzo in casa del consigliere del governo austriaco, Nicolò Cristiani di Rallo, ex allievo di violino di Leopold a Salisburgo. Mozart figlio diede poi un concerto nel palazzo del borgomastro e due giorni dopo una replica nella chiesa di san Marco. Certo, oltre agli “incontri amabilissimi” coi notabili locali, c’erano state anche non poche umiliazioni. A Mantova, per esempio, Maestro e Maestrino avevano dovuto seguire a 50 passi di distanza la carrozza del principe Von Taxis, salvo vedersi poi negare l’agognata udienza da un servo che con voce tremante annunciò che “il principe al momento aveva altri impegni urgenti”.

 

Un’occasione di libertà e un apprendistato continuo. A Mantova aveva potuto anche assistere alle prove del “Demetrio”

Eppure, il viaggio fu un’occasione di libertà e un apprendistato continuo. A Mantova, il giovane Wolfgang, oltre a esibirsi con le sue composizioni all’Accademia filarmonica, suonando e cantando di fronte al governo, ai notabili e alla cittadinanza, oltre a tenere un concerto di gravecembalo e poi intonare un’aria intera su parole fatte espressamente ma da lui e non vedute prima, e concertare una fuga su cembalo e una sinfonia, e improvvisare un pezzo per violino in un trio, aveva potuto anche assistere alle prove del “Demetrio” di Adolph Hasse, al Teatro Vecchio: “La prima Dona canta bene, ma sommessamente, e se non la si vedesse recitare ma solo cantare si potrebbe pensare che non canta affatto, perché non apre la bocca, bensì mugola tutto, il che per noi non è certo una novità inaudita”, scriverà con sorprendente acume alla sorella il 26 gennaio. “La seconda Dona pare un granatiere e ha pure una voce potente, e invero non canta male considerando il fatto che recita per la prima volta. Il primo uomo Il musico canta bene, ma ha una voce discontinua (…). Il secondo uomo già vecchio e non mi piace. Tenor Uno non canta male, ma grevemente, come tutti i tenori italiani, ed è nostro ottimo amico, l’altro non so come si chiama, è ancora giovane, ma niente di speciale, Primo ballerino. Bravo. Prima Ballerina: brava, e si dice che non sia male, io pero non l’ho vista da vicino, gli altri sono come di consueto; c’era un danzatore grottesco, che salta bene, ma non scrive: come me come pisciano le scrofe”.

 

Pochi giorni dopo, arrivati a Milano, padre e figlio erano finalmente approdati a casa del governatore conte Firmian, rimessosi da un brutto catarro che per giorni gli aveva impedito di riceverli. Immaginiamo la scena. E’ il 7 febbraio 1770. I due vengono accolti nella residenza del plenipotenziario austriaco a Palazzo Melzi d’Eril, in via Fatebenefratelli 2, edificio demolito dopo i bombardamenti del 1943. “Abbiamo avuto l’onore di pranzare per la prima volta alla sua tavola”, scriverà Leopold alla moglie Marie Anne il giorno 10. “Dopo pranzo, sua Ecc. ha fatto dono al Wolfg. dei 9 volumi delle opere del Metastasio. E’ una delle edizioni più belle, quella di Torino, ed è rilegata in modo splendido. Come puoi ben immaginare, un simile dono è stato graditissimo sia a me sia al Wolfg. Sua Ecc. è stato fortemente colpito dalla capacità del Wolfg. E ci ha usato favore e distinzione particolari”.

 

La strada per De Mozartini, come lo stesso Wolfgang si autobattezzerà scrivendo alla sorella, era segnata. Seguire Metastasio. Ispirarsi al sommo versificatore. Quel giorno non erano soli; fra i tanti ospiti del conte Firmian c’era anche il Giovanni Battista Sammartini, il compositore settantenne già maestro di Gluck, e autore di musiche da camera molto in voga. A Milano nevica, batte un vento freddo, le strade sono piene di fango. Ma è Carnevale e il Carnevale segue il rito ambrosiano, che dura quattro giorni in più. I Mozart presenziano balli e ricevimenti, ordinano cappe e mantelli per le feste in maschera, “alla mia età devo ancora prendere parte a buffonerie come queste”, commenta Leopold con la moglie, mentre Wolfgang descrive alla sorella Nannerl la facchinad e la chicherad, le sfilate dei milanesi mascherati da facchini o da domestici, che percorrono a piedi, a cavallo, in carrozza strade della città, con tanto di bande di trombe e timpani e gruppi di violinisti al seguito. Ogni sera vanno a vedere uno spettacolo all’opera, al Teatro Regio Ducale, che sarà distrutto da un incendio sei anni dopo, per rinascere nel 1778 come Teatro alla Scala, frequentano compositori come Niccolò Piccinni, che manda in scena il suo “Cesare in Egitto”, incontrano cantanti, strumentisti, coreografi, e non si perdono nemmeno la Messa da Requiem per il Marchese Litta.

 

“La vera soddisfazione è che qui gli italiani riconoscono quanto valga il Wolfgang”, scrive il padre Leopold alla moglie

“Un gran ricavo, in Italia, non l’avremo: la vera soddisfazione che qui vi sono un maggiore interesse e comprensione e che gli italiani riconoscono quanto valga il Wolfg.”, confessa Leopold a Marie Anne. “Per il resto dobbiamo per lo più lasciarci compensare con l’ammirazione e i Bravo, ma ti devo anche dire che siamo stati accolti dappertutto con la più grande gentilezza”. Passano dieci giorni, e il conte Firmian invita Mozart a tenere Accademie nel suo palazzo dal 18 febbraio al 12 marzo al cospetto del duca di Modena, della di lui nipote e futura sposa dell’arciduca Fernando, figlio di Maria Teresa d’Asburgo, dell’arcivescovo di Milano, dei principi Belgiojoso, dei Melzi e della “più alta Nobleße”. L’ultimo concerto sarà una specie di esame. Mozart presenta tre arie e un recitativo, per soprano e orchestra su testo di Metastasio. “Arie col da capo, belcantiste”, nota Sandro Cappelletto “nel protagonismo indiscusso dell’interprete che esalta col suo estro la potenzialità della scrittura sostenuta da un coerente accompagnamento orchestrale”.

 

De Mozartini supera l’esame e l’indomani riceve la commissione per il Mitridate. “Torneremo sicuramente a casa prima di quanto sarebbe altrimenti successo”, annuncia Leopold alla moglie. E invece, il respiro della libertà decide altrimenti e spinge padre e figlio a prolungare per tutto l’anno il soggiorno in Italia, per rientrare a Salisburgo a fine marzo del 1771, dopo aver fatto tappa a Parma, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, e di nuovo a Roma, Bologna e Parma e Milano, per attingere a piene mani alla tradizione italiana, e scoprire di persona la dolcezza gioiosa del vivere all’italiana.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ