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(1941-2022)

Vivienne Westwood, l'attivista ribelle

Fabiana Giacomotti

Battagliera e aristocratica, così ha cambiato la cultura della moda

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Quelle di Vivienne Westwood erano un raro caso di sfilate speculari. Bellissime da vedere seduti in platea, ma eccezionali vissute backstage. Al contrario degli show di ogni altro stilista, dove le modelle vengono tenute rigorosamente irreggimentate in fila anche per la mezz’ora precedente all’inizio e indottrinate fino all’ultimo momento sulla “poise” da tenere dall’aiuto regista, nel retroscena delle sue kermesse poteva succedere di tutto. Per esempio, che si iniziasse con quaranta minuti di ritardo perché lei, impegnata nella causa etica o politica del momento, rilasciava interviste a raffica e senza mai parlare dei vestiti che avrebbero calcato la passerella pochi minuti dopo.

Vivienne Westwood è morta poche ore fa a ottantuno anni dopo una lunga malattia nella sua casa di Clapham, a sud di Londra, circondata dall’affetto dei figli, dei nipoti e di quel suo fantastico marito di trent’anni più giovane, Andreas Kronthaler, che l’affiancava ormai da molti anni dopo esserne stato uno studente. Era difficile capire come riuscisse a tenere in equilibrio il business con il socio di sempre, l’italiano Carlo D’Amario, una stilista che osteggiava, seriamente, l’acquisto compulsivo di abiti, trovava rivoltanti i fashion victim, era ostile al capitalismo e sposava ogni sorta di cause etiche e morali in giro per il mondo. Eppure. Per rompere le regole come faceva lei, quelle regole bisogna conoscerle, e lei le conosceva a fondo, tecnicalità comprese, che pure aveva appreso tardi negli anni. Prendete una sua rilettura del Settecento inglese e, pur nell’assoluta modernità del taglio del capo, non vi troverete nulla di storicamente sbagliato.

Fin dalla collezione “Pirate” che ne aveva segnato l’ascesa internazionale, nel 1981, dopo gli anni delle battaglie punk, Vivienne Westwood aveva dimostrato come dalla lezione dei due secoli più innovativi della moda, il Seicento e il Settecento, si potesse imparare molto, purché si avesse anche il coraggio e l’allure per dissacrarli. “Nella moda è molto importante non essere legati al momento, non seguire la tendenza. Scegliendo questa strada si diventa subito datati e inutili. Di certo, non ho mai pensato che la moda sia tutto e la fine di tutto. Nella vita c’è molto di più. Però credo sia importante quello che si indossa, perché può cambiare il tuo modo di essere, può cambiarti dentro”.  Come ha scritto Andrea Kronthaler nel suo messaggio di cordoglio “(Vivienne) ha continuato a fare le cose che amava, fino all'ultimo momento, disegnando, lavorando alla sua arte, scrivendo il suo libro e cambiando il mondo in meglio. Il suo impatto negli ultimi sessant’anni sono stati immensi e continueranno nel futuro. Continuerò a portarla nel mio cuore. Abbiamo lavorato fino alla fine e lei mi ha dato un sacco di cose da fare. Grazie tesoro".

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Per approfondire il pensiero di Vivienne Westwood, nominata Ufficiale dell'Ordine dell'Impero Britannico (OBE) nel 1992 e avanzata a Dame Commander of the Order of the British Empire (DBE) qualche anno dopo, basta leggere i suoi diari, pubblicati nel 2017 sotto il titolo, autoesplicativo e anche un po’ colpevolizzante, “Get a life!”. “Ho speso la mia vita cercando di capire il mondo seguendo non solo i miei interessi ma attraverso la compassione”, scrive. “Non ci sono sfaccettature, tutto è connesso… Il mio diario è un modo per comunicare il mondo attraverso la mia esperienza. Il mio punto di vista è eretico, il mio nemico è lo status quo”, scriveva, aggiungendo come “senza opinione pubblica siamo persi”. Nella sua battaglia per la difesa del clima e la salvaguardia della foresta pluviale, una parte rilevante riguardava appunto l’inquinamento provocato dall’acquisto eccessivo, compulsivo di abiti. Vivienne Westwood sosteneva di possederne un numero contenutissimo, che indossava da anni a rotazione: “Quando è di buona qualità, un capo migliora con gli anni”. Concreta come sanno esserlo solo le grandi lottatrici sul ring della vita o come le grandi aristocratiche, figure che spesso e nel suo caso coincidevano, era la prima sostenitrice del vintage e del riciclo come segno della vitalità necessaria, imprescindibile all’essenza stessa della moda. “Non voglio perdere tempo a parlare di brutti tessuti o di capi mal fatti, che sfruttano il lavoro nei paesi del terzo mondo e contribuiscono alla distruzione del pianeta”, protestava, “ma dobbiamo ri-educare la gente a distinguere. E a non riempire gli armadi di roba di cui non ha bisogno”.

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La sua mutazione da stilista, certo impegnata, ad attivista nel senso proprio del termine, era evidente già nei primi anni Duemila con gli interventi a favore di Leonard Peltier, attivista nativo americano tuttora detenuto e a suo dire ingiustamente. Erano seguite campagne a favore dell’ecosistema e l’appoggio alle ong come Climate Coalition, Cool Earth, Ethical Fashion Initiative, Greenpeace, Gaia Foundation che, assicura adesso Andreas, continueranno a essere sostenute attraverso la fondazione aperta in suo nome. Nel 2005, con la collezione Propaganda, nata da una riflessione su un testo di Aldous Huxley, la transizione di Vivienne Westwood in attivista politica poteva dirsi ormai completa: “Il mondo ha tre diavoli”, puntualizzava: “l’idolatria del nazionalismo che ha preso il posto della religione, la distrazione continua e la bugia organizzata. Il peggiore è la distrazione continua”. Insomma, tutto quello che credete vi abbia spiegato Greta Thunberg, lei l’aveva detto e teorizzato vent’anni fa. Tutto quello che pensate sia patrimonio della cultura progressista degli ultimi anni – la battaglia per i diritti di tutti, l’inclusione – lei lo metteva in pratica dal giorno uno della sua parabola professionale, artistica ma soprattutto umana.

Come molti inglesi, tendeva però e anche a non rispondere a chi non parlava bene la sua lingua. “I’m sorry, I don’t understand what you mean”, ed era finita lì, presentarsi al semestre successivo più preparati. Dopotutto, prima di Malcom McLaren, dei Sex Pistols e di quella boutique sulla King’s Road che cambiava di insegna a seconda della collezione (da Let it rock a Too fast to live, too young to die fino a Sex, nel 1974), Vivienne Westwood nata nella classe operaia del Derbyshire con l’incarnato favoloso della “english rose” che ha conservato fino all’ultimo, aveva insegnato ai bambini delle scuole elementari.

 Inscenò la commedia della vergine attonita anche in una tarda mattinata del 2007 al Pirellone, durante la conferenza stampa di presentazione della mostra monografica per i suoi trentacinque anni di carriera a Palazzo Reale, organizzata sotto i migliori auspici e per volontà dell’assessore alla cultura di quegli anni, Vittorio Sgarbi, suo grande ammiratore e anche suo regista in occasione della messinscena di un “Rigoletto” al Teatro di Busseto, per il quale “dame Westwood” aveva creato dei costumi straordinari e come era prevedibile ben poco compresi. Il governatore di allora, Roberto Formigoni, le si avvicinò a fine incontro per fare due chiacchiere. Il Celeste con la rosa. Lei, seduta con una di quelle sue gonne che squadernavano all’improvviso le gambe, lo osservò arrampicarsi lungo l’asse inclinato dei phrasal verbs e sbirciarle quell’incarnato di seta senza dire una parola.

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