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Semiologia pret-à-porter

Mitologie perdute. Il rischio di una critica di moda ridotta ai minimi termini

Paola Tavella

Se ci si limita a un post su Instagram e a una scenetta su TikTok, si rischia la scomparsa della percezione della qualità dei capi. Un grande azzeramento di senso in cui la haute couture equivale a Shein

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Si fa strada serpeggiando un’opinione diffusa per cui social media e rivoluzione digitale avrebbero spinto i giornali di moda in un cono d’ombra; d’altronde perfino una testata storica come “Harper’s Bazaar” sembra tentata di abbandonare la moda e veleggiare verso altri orizzonti. Prima dello strapotere delle piattaforme, solo un pubblico scelto e selezionato vedeva che cosa c’era sulle passerelle, e poi era responsabilità degli addetti ai lavori e delle migliori riviste far conoscere la moda al grande pubblico. Oggi tutto accade in tempo reale, anche le novità più estreme e sorprendenti vengono dimenticate in una settimana. E siamo sempre in bilico su un crinale assurdo dove le autentiche tendenze sboccerebbero su Instagram oppure su Tik Tok e andrebbero inseguite, come se la haute couture fosse Shein. Di buon grado, o costretti dalle circostanze, tutti i brand e molte professioniste condividono contenuti sui media digitali, dove la gelida legge dell’algoritmo chiede velocità e vieta profondità, pretende schieramenti netti per attrarre like e far salire il thread, e chi se ne importa se può andare a discapito della trasparenza. La buona scrittura della moda e sulla moda è diventata impervia, stritolata da regole che con il buon gusto, la cultura, la riflessione non c’entrano affatto. E allora che resta della moda, e specie dell’alta moda, senza una scrittura alla sua altezza? Roland Barthes, filosofo appassionato della relazione tra moda e comunicazione, definì la moda un sistema semiotico, di significazione, poiché attribuisce un senso a abiti e ornamenti, oggetti di per sé inerti. E perché questo senso si riveli ci vuole la scrittura di un linguaggio capace di creare immagini e miti, di accendere il desiderio. Ma se il tempo di obsolescenza è breve quanto la vita di un insetto, la moda rischia di perdere il suo tocco, quello di interpretare, e sovente indirizzare, i nostri tempi. Il guru americano del marketing Seth Goldin definisce gli influencer “hacker egoriferiti legati alle pubbliche relazioni” e sostiene che il loro tipo di comunicazione “non porta alcun vantaggio, perché nel lungo periodo non genera né attenzione e né fiducia”: servono sostanza è contenuto, non solo forma. Insomma tocca rimettersi a studiare, non solo essere capaci di scegliere le foto e gli sfondi. Un giornalista di moda è tale se è preparato sui prodotti, sa riconoscere i materiali, la storia delle maison, ricordare le collezioni del passato, qualità che si coltivano soltanto nel contatto diretto con gli atelier. Certo, oggi è possibile fare tour virtuali nei migliori negozi del mondo, o assistere alle sfilate dal pc, ma da casa non si può toccare una stoffa né rendersi davvero conto dei colori e delle rifiniture, ovvero quello che contraddistingue la qualità. Ed è proprio la qualità a cadere per prima vittima del cambiamento, perché si disperde la capacità per analizzare e capire la moda come fatto sociale, linguaggio, espressione di identità e cultura. Le migliori penne hanno il dono e l’abilità dell'archiviazione, hanno costruito negli anni una memoria, anche visiva, che Google non può sostituire e che è alla base del gusto personale. Chi oggi usa una scrittura povera non lo fa soltanto per via del SEO, ma perché non legge abbastanza, poi magari conosce una sola lingua, e pure male. La moda invece ha un linguaggio speciale - proprio come la scienza - che permette a chi la studia e la valuta di esprimersi con un’estrema precisione. È una sorta di esperanto stratificato negli anni, impossibile da scimmiottare, caratterizzato da creatività e permeabilità ad altre lingue, ma non solo: è accaduto che scelte e strategie della comunicazione della moda abbiano anticipato quelle di altri settori. Nel nuovo borbottìo modaiolo sulle grandi piattaforme è preponderante l’inglese, ma rimescolato in maniera talmente confusa da non avere quasi più un senso letterale, sintattico o grammaticale. Il francese è stato la lingua della moda, e per chi è colto lo è rimasto, perché molte lavorazioni sono nominate solo in francese. I tecnicismi che descrivono materiali e lavorazioni specifici, come chiffon - che ho personalmente visto scritto “sciffon” da una signorina con decine di migliaia di like - voile, satin, crêpe georgette, pied de poule, godet, mélange, matelassé, plissé. Anche quando queste parole tipiche del gergo della moda resistono, ed è raro, l’accentazione risulta molto fantasiosa. Il mio esempio preferito (è stato addirittura studiato) è il seguente: decolleté, decolletè, decolté, decollété, décolléte, decollétée o decollete. 

 

P.S. L’articolo di Paola Tavella sarebbe finito qui; abbiamo provato a farglielo allungare, non ci siamo riusciti nel numero di battute che avremmo voluto. Però il sostantivo “décolletée” merita un minimo di esegesi. Per i neofiti, o anche no, la grafia corretta è appunto décolletée, volendo anche accordato al plurale décolletées essendo il paio di scarpe equivalente a due scarpe (però nella grafia corrente italiana non si usa). Etimologicamente, rappresenta il participio passato del verbo “décolleter” cioè scoprire il collo, come derivato di collet, “colletto”. La S in funzione privativa in italiano (s-collare), in francese equivale al “de” che, essendo sillabicamente autonomo, viene definito dall’accento acuto, a meno che non sia seguito da una S, nel qual caso non viene accentato. Essendo poi la scarpa sostantivo femminile anche in francese (“la chaussure”), il termine décolleté deve essere declinato al femminile, aggiungendo una E. E con questo speriamo di avere chiuso la questione una volta per tutte.

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