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Chanel n° 5 non è solo un profumo, è una storia di spie e intrighi nazisti

Fabiana Giacomotti

Cent'anni fa veniva commercializzato per la prima volta quello che diventò il profumo più conosciuto al mondo. Per tutta la seconda guerra mondiale venne fabbricato nel New Jersey. E non è vero che sia stato la prima essenza della moda. Però è eccezionale, questo sì

Oggi 5 maggio, giorno nel quale dovremmo festeggiare il grande inventore di tutte le rappresentazioni celebrative possibili e di ogni moda come la conosciamo oggi, e cioè Napoleone Bonaparte di cui ricorre il bicentenario della morte, eccoci invece a celebrare l’altro grande e simbolico 5 della storia del lusso francese, e cioè il profumo Chanel numero 5.

 

 

Arriviamo buoni ultimi, cioè dopo che il solco della narrazione è stato tracciato da uno storytelling in cui si sono scritte e raccontate cose del tutto prive di senso, per esempio che ogni annata del profumo sarebbe diversa a causa dei diversi raccolti di rose, gelsomino e tuberosa, quando chiunque sa, o dovrebbe sapere, che per una legge europea del 2009, successivamente più volte modificata, la percentuale di essenze naturali nei profumi è talmente bassa da rendere qualunque variazione di eventuali e meravigliosi raccolti naturali del tutto improbabile. La legge, mirata ad annullare il rischio di reazioni allergiche e molto richiesta soprattutto dall'America come garanzia per l’export, mise in ginocchio i produttori di essenze naturali (un litro di essenza di rose costa 20mila euro, vedete voi quanto potrebbe comunque essercene in una boccetta da 50 millilitri che pagate meno di cento euro) e fu causa di molte proteste fra i coltivatori di rose e lavande.

 

Dunque no, diremmo con buon margine di sicurezza che Chanel n 5 non produce i vintage come il Dom Perignon e che tutti noi compriamo, per legge, profumi industriali di sintesi. Forse qualche variazione fra annate diverse si sarebbe potuta registrare nel 1921, quando venne lanciato e il contenuto di essenze naturali era molto più elevato, oltre che ovviamente consentito: ora ci pare molto improbabile, soprattutto per l’uso di sostanze atte a garantire la stabilità olfattiva per un lungo periodo.

 

Abbiamo letto anche un’altra cosa, e cioè che prima di Gabrielle Chanel “moda e profumeria non dialogassero”. Non è assolutamente vero: molto prima di Chanel n 5, cioè nel 1911, uscì la linea di essenze che Paul Poiret aveva dedicato a sua figlia, “Les parfums de Rosine”: le produceva il dr Midy al 107 della rue du Faubourg Saint Honoré, e accompagnavano le collezioni del padre. Coco Chanel detestava Poiret (detestava qualunque rivale, in realtà, dicendone anche in pubblico peste e corna), e ne avrebbe offuscato la storia e le straordinarie innovazioni. Dopo Poiret, con una propria linea di profumi arrivò il dimenticatissimo Paul Babani. Buona terza, Chanel. Molto del marketing della moda che conosciamo e applichiamo oggi è merito di Poiret, di quel signore che sarebbe morto in quasi povertà dopo aver tolto il busto alle signore (ah, non sapevate che anche questa è innovazione sua e non di Chanel?).

 

Quello che è vero, invece, è che prima di Chanel n 5 non esistessero profumi complessi o astratti, addirittura con 80 ingredienti: le essenze erano in genere monofiore o poco più. Insomma, pur apprezzando molto le capacità di narrazione dei brand e la volontà di molti di adeguarvisi senza porsi altre domande, ci pare che la storia documentale abbia un valore. A questo proposito, crediamo valga la pena di raccontare anche un’altra serie di fatti che riguardano questo straordinario profumo (perché straordinario è davvero, sintesi o meno). Che Marilyn Monroe ne parlasse alle americane con la nonchalance che si riserva a un prodotto entrato nell’uso e nei sogni comuni (l’ormai abusatissima battuta sulle “due gocce di Chanel” in luogo del pigiama) deriva dal fatto che, per tutta la Seconda Guerra Mondiale, Chanel n 5 era diventato un profumo statunitense dall’allure parigina. Quando le truppe alleate arrivarono a Parigi, corsero infatti a cercare in rue Cambon le origini di un profumo che, per non pochi anni, era stato prodotto a Hoboken, la cittadona del New Jersey dove era nato e cresciuto Frank Sinatra, e che lo sarebbe stato ancora per un tempo abbastanza lungo.

 

Il profumo che quei ragazzoni pensavano venisse imbottigliato sulle rive della Senna, era arrivato sull’Hudson grazie a una storia rocambolesca che Graham Greene avrebbe scritto sicuramente volentieri, se mai gli fosse stata raccontata, e che è la storia della famiglia Wertheimer, ricchissima proprietaria dei profumi Bourjois, socia delle Galéries Lafayette e azionista di controllo di Chanel dal 1924 (lo è tuttora, ve lo diciamo già), che in quegli anni era fuggita, come molti altri ebrei, negli Stati Uniti.

 

La formula di Chanel n 5 sarebbe arrivata negli Stati Uniti alla fine del 1940, insieme con l’ultimo figlio di Pierre Wertheimer, Jacques, fuggito da un campo tedesco dopo la sconfitta dei francesi nel 1939 e nascosto a Bordeaux, portati entrambi con mezzi e modi che non sarebbero mai stati rivelati da Herbert Gregory Thomas, avvocato di diritto internazionale, educato in Svizzera e laureato al Corpus Christi College di Cambridge, che aveva passato la frontiera con il nome di Don Sotto Mayor. Era vicepresidente delle attività americane dei Wertheimer dal 1939. Imbarcandosi all’aeroporto New York Municipal (sarebbe diventato La Guardia nel 1947), disse a un reporter del New York Times che lo intervistava che aveva dato le dimissioni da Bourjois per la Toilet Goods Association, e che stava andando in Europa per studiare metodi di importazione di oli essenziali dall’Italia e dalla Francia. Thomas, come racconta bene un libro uscito dieci anni fa “Sleeping with the enemy. Coco Chanel’s secret war”, scritto da Hal Vaughan per Knopf al termine di un colossale lavoro documentaristico, nel suo viaggio in Francia aveva anche un altro scopo da raggiungere, e cioè assicurarsi che il grande costruttore di aerei Felix Amiot, a cui i Wertheimer avevano ceduto fittiziamente le attività prima di fuggire, fosse adeguatamente tutelato.

 

Di lui, la famiglia di profumieri si fidava ciecamente: lo avevano aiutato ad avviare la sua attività agli inizi del secolo, era ariano e, cosa non trascurabile, possedeva un’attività di grande interesse per i tedeschi, che infatti non diedero mai seguito alle pressioni e alle denunce di Coco Chanel per rientrare in possesso dell’azienda. In quegli stessi mesi, la couturière si era infatti trasferita all’ultimo piano del Ritz (non credete alla storia degli occupanti nazisti che la vedono sperduta nella hall e le chiedono se non avesse mai bisogno di un rifugio sicuro: al settimo piano dell’albergo, dove soggiornava Himmler quando era di stanza a Parigi, si aveva accesso solo se strettamente legati agli occupanti) e vi abitava con l’ultimo amante, più giovane di lei di parecchi anni, il barone Hans Gunther von Dincklage detto “Spatz”, spia internazionale e altro personaggio rocambolesco di questa storia da romanzo. Lui la aiutò in ogni modo. Si è molto scritto sulle attività segrete di Coco Chanel, ipotetico agente F-7124, che non agiva solo per recuperare dietro delazione una proprietà che aveva ceduto molti anni prima (forse avrebbe potuto trattare meglio le condizioni in origine, invece di accettare solo il 10 per cento dei proventi del profumo), ma anche per salvare un nipote, André Palasse, richiuso in uno stalag e malato di tubercolosi. Ci sono prove di suoi viaggi in Spagna e di abboccamenti anche con gli inglesi per conto dei tedeschi, che avevano visto la fine approssimarsi. Fatto sta che dopo la liberazione, Chanel venne arrestata, andò a processo e si dice venne rilasciata solo grazie all’intervento del vecchio amico Winston Churchill. Di sicuro, reputò opportuno lasciare la Francia. Si trasferì in Svizzera, con Spatz, fino al 1953, quando fece ritorno. Aveva venduto tutto ai Wertheimer, lanciò il completo tailleur che avrebbe fatto la sua (seconda) fortuna. L’impero tornava a crescere, i rapporti dovevano tornare buoni. Così accadde. Due giorni fa, Chanel ha presentato virtualmente la collezione Cruise 2022, che la direttrice creativa Virginie Viard ha concepito attorno al “testamento di Orfeo” diretto da Jean Cocteau, il più stretto amico di Coco Chanel. Il mondo gira, si evolve, torna indietro, riflette. L’importante è non riscrivere.

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