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il foglio della moda

Vestiremo alla petroliera

Fabiana Giacomotti

Troppe norme, consorzi di certificazione, comunicazioni fuorvianti, oltre a consumatori abituati a comprare tanto spendendo poco.  E quel bando UE vinto da un’associazione a maggioranza fast fashion che rischia di portare il poliestere ai vertici della scala green. Indagine
 

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Nelle intenzioni originarie, questa indagine avrebbe dovuto essere una seria ma rasserenante classifica delle aziende di moda sostenibili in Italia su criteri ambientali, sociali, economici, cioè di tutte le dimensioni in cui l’industria della moda sta cercando di correre ai ripari dopo aver raggiunto la poco invidiabile posizione di secondo agente inquinante del pianeta. Purtroppo, allo stato attuale della legislazione europea, nazionale e regionale attorno a temi come classificazione delle materie prime, la valutazione dell’impatto energetico, del riciclo e dello smaltimento rifiuti, questa classifica è impossibile. Se poi volessimo aggiungervi la sostenibilità sociale, sfiorerebbe la fantascienza. Troppe le variabili in campo, troppi consorzi e gruppi di interesse di cui molti privati, compresi editori internazionali come BoF, che sono scesi in campo con dichiarate “metodologie proprie” per tracciare un Indice di Sostenibilità di cui ammettono la sindacabilità già nella presentazione, in quanto basato largamente su autodichiarazioni, e nel quale accusano le aziende esaminate di rilasciare troppe dichiarazioni e proclami rispetto alle attività svolte. Manca una univocità di metodo, manca una normativa comunitaria efficace e rigorosa.

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Nelle intenzioni originarie, questa indagine avrebbe dovuto essere una seria ma rasserenante classifica delle aziende di moda sostenibili in Italia su criteri ambientali, sociali, economici, cioè di tutte le dimensioni in cui l’industria della moda sta cercando di correre ai ripari dopo aver raggiunto la poco invidiabile posizione di secondo agente inquinante del pianeta. Purtroppo, allo stato attuale della legislazione europea, nazionale e regionale attorno a temi come classificazione delle materie prime, la valutazione dell’impatto energetico, del riciclo e dello smaltimento rifiuti, questa classifica è impossibile. Se poi volessimo aggiungervi la sostenibilità sociale, sfiorerebbe la fantascienza. Troppe le variabili in campo, troppi consorzi e gruppi di interesse di cui molti privati, compresi editori internazionali come BoF, che sono scesi in campo con dichiarate “metodologie proprie” per tracciare un Indice di Sostenibilità di cui ammettono la sindacabilità già nella presentazione, in quanto basato largamente su autodichiarazioni, e nel quale accusano le aziende esaminate di rilasciare troppe dichiarazioni e proclami rispetto alle attività svolte. Manca una univocità di metodo, manca una normativa comunitaria efficace e rigorosa.

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Le aziende della moda nazionale e soprattutto i façonisti delle multinazionali del lusso, piccole imprese di fatturato inferiore al milione di euro, si dibattono nel frattempo fra auditor e certificazioni multiple, spesso private o dettate dalla vanità di piccoli personaggi della politica locale, per compilare le quali devono affidarsi alle proprie associazioni di categoria perché farlo è complicatissimo, oltre a dover sostenere costi di smaltimento che nessuno copre perché, come dice Roberta Alessandri, titolare della Tomassini di San Mauro Pascoli, i margini garantiti dai committenti sono sempre più ridotti mentre i costi di conferimento dei rifiuti restano molto onerosi.

 

La vera battaglia sul sostenibile, però, si sta combattendo a Bruxelles sulle fibre vegetali, animali e sintetiche, attorno a un documento che verrà consegnato nel 2022 e di cui Il Foglio è venuto a conoscenza. L’Unione Europea ha infatti affidato per bando il Segretariato Tecnico del PEF – Product Environmental Footprint per i settori abbigliamento e accessori, a cui spetta lo sviluppo e l’implementazione delle regole di categoria dell’impronta ambientale di prodotto (Perfc) durante la fase di transizione verso l’impatto zero cioè fino al 2027 – alla Sustainable Apparel Coalition, associazione di cui fanno parte 250 aziende della moda mondiale, comprese quelle potentissime del fast fashion, che sarebbe come dire che i controllati hanno vinto il ruolo di controllori. C’è da sperare che, facendo parte del SAC sia i grandi gruppi del lusso sia il mass market, gli interessi spesso opposti tenderanno all’elisione reciproca e favoriranno un codice di condotta comune virtuoso, ma è comunque bene sapere che la questione non è in mano a organismi terzi. Scorrendo la lista degli associati, fra le righe si legge più poliestere che seta, più colle che cuciture a mano, comunque.

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Per accedere al SAC, le cui aziende aderenti generano un fatturato complessivo di 845 miliardi di dollari, la cifra di adesione è di 50mila euro: cifra irrisoria per Inditex, inavvicinabile per una piccola azienda del laniero che magari – e con questo tocchiamo il combattutissimo punto degli allevamenti intensivi di bovini e ovini e del loro impatto sull’ambiente, giudicato dal SAC superiore a quello del petrolio - tratta il vello delle proprie pecore come fosse quello del viaggio di Giasone. Il SAC ha in effetti quote di adesione più contenute per le piccole imprese, anche pari a 5mila euro: la rappresentatività che questa serie B offre non dev’essere però significativa, visto che nessuno sotto i 3 miliardi di giro d’affari ne fa parte. Camera Nazionale della Moda Italiana, che a giorni lancerà le “Linee guida sulla modalità di utilizzo dei prodotti chimici nelle filiere produttive della moda”, colossale lavoro di raccolta e verifica dalle diverse filiere produttive che già producono a norme Ue per favorire il monitoraggio delle supply chain e che è stato sviluppato con tutte le principali associazioni, da Tessile e Salute a SMI-Sistema Moda Italia, Federchimica e Unic, ha ottenuto un posto di uditore nel Technical Secretariat. Per votare, bisogna infatti essere soci del SAC, e il presidente Carlo Capasa ha ritenuto sufficienti le proprie capacità diplomatiche e il peso dei propri associati, che nel caso specifico includono nella “Commissione chamicals” Giorgio Armani, Gucci, Prada, Valentino e Versace, per poter agire senza dover pagare per farlo.  

Questo per farvi capire il giro di interessi che ruota attorno alla sostenibilità, ormai diventata strumento di marketing, occasione di business per laboratori e associazioni e, ça va sans dire, leva di comunicazione già dotata di metafora propria, il celebre greenwashing. Tutti la praticano, nelle intenzioni almeno; tutti ne parlano come di un dovere, ma pochissimi sembrano crederci fino in fondo, a partire dal pubblico finale a cui tutte queste iniziative sarebbero rivolte e che in realtà vorrebbe solo procurarsi pret à porter di alta gamma a prezzi da fast fashion, abituato ormai com’è a cambiare abito senza pensare a null’altro e senza fidarsi comunque delle multinazionali, sospettando anzi che per loro il margine sia l’unica regola davvero perseguita. D’altronde, un po’ di ragione ce l’ha, se perfino Greenpeace ha messo in vendita per una propria recente raccolta di fondi una t shirt di cotone non sostenibile (il cotone, di per sé fibra ad alto impatto ambientale per la quantità di acqua che consuma in ogni fase della propria esistenza, coltivato biologicamente è molto costoso).

 

La sostenibilità è una cosa bellissima, ma impone molti sforzi sia sul fronte dell’offerta sia su quella della domanda, e vent’anni di stracci usa e getta a imitazione della moda vista in passerella, spesso anzi realizzata con lei come accade dal Duemila con H&M, non sono trascorsi senza lasciare traccia (un mese fa, il sito è andato in tilt due minuti dopo il rilascio dei capi della stilista irlandese Simone Rocha). Dunque, se a parole il nostro cliente tipo si ritiene “evoluto e consapevole”, siamo sicuri che sia pronto a sostenere i costi di una camicia di seta che, pur non griffata, costa trecentocinquanta euro perché viene realizzata con il filato di bachi di cui si attende la trasformazione in farfalla, alimentati con foglie di gelso non trattate con pesticidi, oppure preferisce infischiarsene della bollitura del baco che non emette lamenti come i quattrozampe e cavarsela con la metà della cifra? Siamo convinti che sia disposto a rinunciare all’imitazione di una gonna di Marni o di Jil Sander fatta in Bangladesh sapendo che è stata cucita da donne che guadagnano 70 euro al mese e che spesso, come osserva Antonio Franceschini, head of international market and trade promotion di CNA, all’arrivo degli ispettori sono costrette a nascondersi perché minorenni (e sempre che il controllore sia andato davvero a farla, la visita a sorpresa)? E se anche se dovesse trovare sui capi la famosa etichetta di tracciabilità, irraggiungibile mito dei paladini del green, il nostro cliente la leggerebbe? Saprebbe capirla? Pochi giorni fa, l’azienda di mass fashion Liu Jo ha annunciato l’utilizzo di materiali sostenibili certificati GRS (Global Recycle Standard) sul “23 per cento della collezione Soft Accessories e il 40 per cento della collezione Liu Jo Accessories”: come si distingue la minoranza di borse e scarpe sostenibili? Per saperlo, abbiamo dovuto scrivere all’ufficio di pubbliche relazioni del marchio: ci ha detto che sugli accessori virtuosi verrà apposto un cartellino con la scritta “Better”. Meglio di che cosa? Degli stivaletti venduti accanto con lo stesso marchio? E se non conoscessi l’inglese, il cui abuso è ormai – Mario Draghi dixit – il massimo del provincialismo?

Il procuratore di Tessile e Salute, Mauro Rossetti, gran tessitore degli ultimi documenti di Camera Moda e non è un gioco di parole, elenca le principali sigle attorno alle quali si gioca la partita industria moda-mondo conosciuto: in Europa il regolamento Reach, varato nel 2006, che regola l’uso delle sostanze chimiche; negli Usa il Consumer Product Improvement Act (CPSIA) e la California Proposition 658 (di cui poco si trova online, peraltro); in Giappone la Law for the Control of  Household Products Containing Harmful Substances, che a leggerla così sembra più che altro un codice sull’uso della candeggina sui pavimenti di casa ma insomma. C’è una legge specifica sulla qualità anche in Cina: non abbiamo avuto modo di verificarne gli articoli. Quando si scende più nello specifico, le cose si complicano ulteriormente: solo una norma UNI prende in esame in modo sistematico la sicurezza dei prodotti tessili, la UNI/TR 11359, pubblicata nel 2010. Poi, ci sono i capitolati privati, che si basano, come dice Rossetti, sulle RSL, le Liste delle Sostanze vietate o limitate; ma, aggiunge, “c’è una grande varietà tra le RLS sia fra le sostanze elencate sia come impegni richiesti alla filiera”. Di recente, Rossetti ha riordinato i laboratori di ricerca e le loro attività. A breve, annuncia la responsabile del settore sostenibilità e nuovi marchi di Camera Moda, Paola Arosio, arriveranno le nuove linee guida sulle prassi da seguire nella fabbricazione di capi e accessori per minimizzare i rischi per l’ambiente. Tutte le aziende coinvolte nella stesura e nella verifica del documento pubblicano un bilancio sociale e sono impegnate con iniziative e protocolli propri, talvolta talmente avanzati da richiedere sforzi ulteriori alle aziende façoniste. Prendete Gucci: l’azienda di punta del gruppo Kering di François Henri Pinault che due anni fa, al G7 di Biarritz, lanciò un “Fashion Pact” per la difesa della biodiversità e la salvaguardia degli oceani dalle microplastiche dei lavaggi di tessuti sintetici a cui non aderì il gruppo arci-rivale Lvmh, a fine gennaio di quest’anno ha annunciato un’ accelerazione della sua strategia sulla sostenibilità che prevede, oltre alla carbon neutrality dichiaratamente già raggiunta nel 2018, una serie di altri interventi. La prima di queste è la protezione e la ricostituzione di foreste e di mangrovie in “aree significative per la biodiversità e a rischio di deforestazione”, oltre all’adozione di pratiche di agricoltura rigenerativa che sono il punto centrale della questione e che ci piacerebbe vedere in atto (il cotone, ricordatevi il cotone: è alla base di ogni dramma etico e morale si sia prodotto nel mondo negli ultimi cinquecento anni, e adesso ha scatenato una nuova guerra Cina-resto del mondo attorno alle coltivazioni dello Xinjiang dove verrebbero sfruttati lavoratori della minoranza musulmana uigura).

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Lo scorso febbraio, dopo aver dichiarato la compensazione delle emissioni residue derivanti dalle attività del 2019 - pari a 1.369 milioni di tonnellate di anidride carbonica equivalente (CO2e) - con azioni a tutela della biodiversità di circa 1, 2 milioni di ettari di foreste in Kenya, Zimbabwe e Honduras con associazioni internazionali e locali, il presidente e ceo di Gucci Marco Bizzarri è andato a Davos, ha detto di voler agire su tutte le fasi della filiera produttiva per restare carbon neutral, e a noi sono venuti in mente i produttori della Toscana e delle Marche con le loro ansie per le normative farraginose delle Regioni e l’incubo di non rientrare più nei parametri dettati da quel signore alto due metri al quale suggeriremmo, via Camera Moda, un tavolo di confronto con le associazioni dei façonisti. E’ vero, come scrive Brunello Cucinelli in calce al suo bilancio 2020, “che nel corso del 2020 l’interpretazione da parte di molti clienti della sostenibilità si sia progressivamente ampliata dalla dimensione ambientale arrivando a toccare le corde di quella Umana Sostenibilità che consideriamo elemento genetico del nostro modo di fare impresa”, ma è anche vero che non tutti possano davvero suonarle, quelle corde, sappiano come farlo o vogliano farlo davvero. Poi, sarebbe sbagliato addebitare al fast fashion e al mass fashion ogni male.

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Dopotutto, uno dei primi a investire in fibre tessili di recupero e riciclo dal PET fu proprio H&M, ricordiamo la prima bellissima collezione “Conscious” una decina di anni fa, mentre solo una settimana fa Intimissimi ha annunciato una nuova linea in pizzo con filato rigenerato e tinto con coloranti vegetali di antica scuola, cioè estratti di clorofilla, noce di galla e il legno del castagno che è anche alla base delle lavorazioni, per dire, del cuoio italiano, che dal rilascio dei tannini acquisisce elementi di salubrità. OVS, invece, ha spinto molto sull’etichettatura trasparente, lanciando fra altre iniziative di circolarità il progetto Eco-Valore che, attraverso tre specifici indici, consente al cliente di scoprire per ogni capo venduto in e-commerce quanta acqua sia stata utilizzata, quanta CO2 sia stata emessa per produrlo e quanto sia facilmente riciclabile. Volendo, insomma, le soluzioni ci sono e sono praticabili. Dice Capasa che nel giro di cinque anni la questione sarà molto più chiara e le norme definite, ma che poi succederà quel che è successo con l’alimentare, e cioè che la scelta finale spetterà ancora una volta al cliente, cioè lo stesso che negli ultimi trent’anni ha imparato a rifiutare i coloranti artificiali e fare attenzione al cibo che mette nello stomaco. Il punto, adesso, sarà di fargli capire che la pelle non è un vestito o un rivestimento terzo di organi, ma un organo come tutti gli altri. Anzi, il più esteso.

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