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Rimetterci le suole

Fabiana Giacomotti

È il rischio che corrono i fondi che investono nella moda: è cool, ma solo se lo si sa fare 

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Come sempre quando si tratta di editoria o di moda, leve potentissime sull’immaginario pubblico della chiccheria e dunque ragione prima perché industriali anche potentissimi nell’alimentare, nell’elettronica o nell’auto, cerchino di metterci dentro un piede e spesso li perdano entrambi, abbiamo assistito a grandi manifestazioni di entusiasmo per l’acquisizione di una quota del 24 per cento della maison Louboutin da parte di Exor (nota a margine: il “Bruno” citato familiarmente dal presidente John Elkann nella nota stampa come partner di Christian Louboutin, e da tutti i siti citato con la stessa familiarità, possiede un cognome, ed è Chamberlain).

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Come sempre quando si tratta di editoria o di moda, leve potentissime sull’immaginario pubblico della chiccheria e dunque ragione prima perché industriali anche potentissimi nell’alimentare, nell’elettronica o nell’auto, cerchino di metterci dentro un piede e spesso li perdano entrambi, abbiamo assistito a grandi manifestazioni di entusiasmo per l’acquisizione di una quota del 24 per cento della maison Louboutin da parte di Exor (nota a margine: il “Bruno” citato familiarmente dal presidente John Elkann nella nota stampa come partner di Christian Louboutin, e da tutti i siti citato con la stessa familiarità, possiede un cognome, ed è Chamberlain).

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A meno di quattro mesi dall’ingresso nel gruppo cinese Shang Xia attraverso un aumento di capitale riservato di Hermès International e un investimento di 80 milioni di euro, che hanno permesso alla holding della famiglia Agnelli di acquisire il controllo della società, arriva dunque una seconda acquisizione, con un impegno finanziario di quasi sei volte superiore, 541 milioni di euro, in cambio della nomina di due consiglieri, di una quota di minoranza, seppur rappresentativa, e con ogni probabilità con l’obiettivo di portare Louboutin in Borsa, magari rafforzando quell’ampliamento nell’offerta di accessori che fino a oggi al brand non era riuscito. Trova dunque nuovo slancio il calzolaio delle scarpe dalle suole rosse, che non sono affatto “inconfondibili” come tutti scrivono da sempre, ma anzi sono state molto spesso confuse con quelle degli imitatori, al punto che monsieur Christian si è trovato più volte a dover portare i concorrenti in tribunale (l’ultima volta il giudizio fu piuttosto salomonico, nel senso che non si capì chi avesse ragione e se davvero una suola rossa potesse essere considerata un tratto distintivo e unico).

 

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C’è da rallegrarsi che la Exor o, come dire, la famiglia Agnelli, tenti nuovamente e con molta evidente prudenza la strada della moda, quasi a trent’anni dall’acquisizione del Gruppo Gft da parte della Gemina del nonno, Gianni Agnelli. Di quel leggendario gruppo che fu il primo vero polo del lusso europeo, nonché il motore di sviluppo di aziende come la Giorgio Armani e della stessa Pitti Immagine, la cui impostazione porta ancora la firma di Marco Rivetti, non è rimasto niente dopo il passaggio alla HdP e alla gestione di Maurizio Romiti (che sì, è il motivo per cui la Valentino spa non è più italiana come lamentano molti). Dei tanti tentativi degli imprenditori italiani di emulare Lvmh o Kering, che se il gruppo Gft si fosse sviluppato come meritava non sarebbero mai riusciti a fare acquisizioni in Italia, è rimasto quasi zero. Nel primo decennio di questo secolo, nell’ordine, Fin.part, It Holding e Burani Fashion Group finirono tutti in bancarotta, con sentenze e un po’ di galera per gli amministratori. Avevano agito troppo di “leva finanziaria”, e con il crollo di Lehman Brothers si trovarono allo scoperto (Fin.part aveva iniziato a tracollare prima, sul celebre “bond Cerruti” che la portò alla rovina).

 

 

Investire nella moda e nel lusso dà lustro, come scrivevamo prima, consente alle mogli di frequentare le sfilate e ammanta qualunque business di elegante intelligenza. Non è un caso che la famiglia Rovagnati abbia investito centinaia di milioni in Pineider, ampliandone l’offerta alla pelletteria. Ma fare moda, come abbiamo scritto anche sul Foglio molte volte, prevede competenze e tempistiche quasi proibitive per i fondi di investimento e di grande pazienza per i singoli che decidessero di investirvi. Fra i grandi investitori, in Italia, c’è solo Giovanni Tamburi a cui la moda abbia sempre arriso (al momento, il suo più importante investimento è però OVS, a cui è andato ad aggiungersi Stefanel, marchio sostanzialmente scomparso e il cui recupero sarà il nuovo banco di prova di Stefano Beraldo). In questo momento, fra i pochi imprenditori italiani che stiano facendo davvero soldi con la moda ci sono Renzo Rosso, che tre giorni fa si è regalato Jil Sander, comprandola da una multinazionale nipponica che aveva bisogno di recuperare liquidità; Patrizio Bertelli di Prada (che cedette proprio Jil Sander una quindicina di anni fa e che dopo aver abbandonato il sogno del “polo” ha saputo focalizzarsi sul prodotto e da qualche mese su una partnership creativa geniale per Miuccia Prada, ovvero Raf Simons) e, ça va sans dire, Giorgio Armani.

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Sono in recupero dopo la batosta cinese i Dolce&Gabbana e i Missoni hanno trovato un appoggio finanziario con il Fondo strategico italiano. Poi ci sono i gruppi del mass market della lingerie, principalmente Sandro Veronesi di Calzedonia  e i Cimmino di Yamamay e Carpisa, che però non producono in Italia se non in minima parte. Tutti arrivano “dal mestiere”. Conoscono come superare le secche del mercato e modulare il prodotto senza azzerare l’asset intangibile e fondamentale del marchio massificando il prodotto per generare utili, che è il grande problema dei fondi. Dunque, bene che si investa nella moda. Sapendo però lasciare le redini a chi sa farla.

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