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La scelta controcorrente di Bottega Veneta che spegne i social

Marta Galli

Il caso dell'azienda di Montebello Vicentino dimostra che nel business della moda qualcuno sembra pensarla fuori dal coro: una mosca bianca o è solo l’inizio? 

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Bottega Veneta in un mondo senza like è un sogno di liberazione che nessuno osava immaginare. La nota casa di moda con sede a Montebello Vicentino non ha rilasciato dichiarazioni sulla chiusura, lo scorso 5 gennaio, dei suoi account Instagram, Facebook e Twitter e questo dà adito a una dietrologia che, naturalmente, lascia il tempo che trova. Ma consentiteci di speculare e indugiare nell’idea che un’alternativa al modus operandi corrente è possibile, non invischiata nella logica dei social media che ha promosso il presenzialismo a valore in sé. 

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Bottega Veneta in un mondo senza like è un sogno di liberazione che nessuno osava immaginare. La nota casa di moda con sede a Montebello Vicentino non ha rilasciato dichiarazioni sulla chiusura, lo scorso 5 gennaio, dei suoi account Instagram, Facebook e Twitter e questo dà adito a una dietrologia che, naturalmente, lascia il tempo che trova. Ma consentiteci di speculare e indugiare nell’idea che un’alternativa al modus operandi corrente è possibile, non invischiata nella logica dei social media che ha promosso il presenzialismo a valore in sé. 

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Il marchio aveva anni fa pionieristicamente abbracciato la comunicazione social, persino lanciando all’inizio del 2018 una campagna “digital first”, pensata primariamente per essere fruita attraverso la minuteria tecnologica che ci portiamo appresso. Questo accadeva poco prima del cambio della guardia alla direzione creativa – che a giugno dello stesso anno è passata dal tedesco Tomas Maier all’inglese, allora trentaduenne, Daniel Lee. Oggi alcuni osservatori rivangano una dichiarazione del giovane designer rilasciata a Vogue Uk attribuendovi valore profetico: “È stato bello crescere nell’era pre-Instagram: ci divertivamo molto. Sarà interessante vedere cosa accadrà in futuro. Io credo che ci sarà un ritorno alla privacy. Lo spero davvero”.

 

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Intanto Bottega Veneta, che aveva chiuso il 2019 con una crescita del 5,3 % rispetto all’anno precedente (e un fatturato pari a 1 miliardo e 167 milioni), ha optato per una presentazione a porte chiuse a Londra della collezione P/E 2021 lo scorso ottobre, svelata al pubblico solo un paio di mesi più tardi. E ha dimostrato di saper proseguire bene anche in tempi di pandemia, contribuendo a compensare le perdite dell’ammiraglia (Gucci) dello stesso gruppo (Kering). Farne una mera questione di portafogli sarebbe troppo sbrigativo: perché consumi ad alto valore aggiunto come la moda sono spinti dal bisogno di appartenenza. E in questo ambito, il fattore psicologico correla alla spesa più del fattore economico: così Erwan Rambourg, un analista di Wall Street, in Future Luxe: Whats Ahead for the Business of Luxury spiega perché nonostante il Giappone versasse in stagnazione economica negli anni Novanta, abbia offerto grandi occasioni di crescita a molti produttori di lusso.  

 

Ora, se l’abbandono dei social network sarà definitivo Bottega Veneta potrà plasmarsi un’identità esclusiva, mentre l’eccitazione dei seguaci del marchio continuerà e a trovare sfogo nei diversi account non ufficiali che sono spuntati su Instagram, a cominciare da @newbottega, aperto in seguito all’insediamento di Lee, che conta oggi 365 mila follower.  D’altra parte è di certo una scelta radicale in un momento in cui tutti s’impegnano a navigare nella direzione opposta: dalle aziende che proiettano sforzi economici e creativi sul social marketing al Papa, che sembra preferire la Gazzetta dello Sport al Corriere della Sera. Una prova ulteriore che il vento tira nella direzione dell’anti-elitarismo: per cui il capo del governo è l’ “avvocato del popolo”, Jorge Mario Bergoglio (si perdoni l’insistenza) è un’icona pop su Vanity Fair e i brand devono prestare attenzione a dove mettono i piedi, perché la gaffe è dietro l’angolo ed è meglio affannarsi dietro ai mutevoli animi della “selfie generation”, che zelante sorveglia l’Internet.

 

Quante volte si è già proclamato il processo in atto di democratizzazione della moda? Ma si potrebbe pure timidamente sostenere che la “democrazia” nella moda sia solo una moda, anche se implica la messa in discussione non della lunghezza delle gonne ma di cosiddetti valori. Ci aiuti Blaise Pascal, che già osservava che la moda “come determina il piacevole, così determina il giusto”. Se così fosse allora forse il vento sta cambiando. Occorre abbandonare però qui le speculazioni, anche quando si dicano speranze, che come recita un vecchio adagio danese “è difficile fare previsioni, soprattutto sul futuro”.

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