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il foglio del weekend

Sarti a domicilio

Fabiana Giacomotti

Arabia Saudita, India, America. Tessuti, prove e sfilate via Zoom. Con la pandemia i grandi stilisti riscoprono l’arte del viaggiare

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Qualunque cosa pensiate di Guillermo Mariotto e dei giudizi che trancia a “Ballando con le Stelle”, sappiate che è arrivato il suo momento di stare in piedi per ore, di ballare al ritmo di una musica che non ha scelto, di essere giudicato, di doversi correggere in corsa. Questo, senza poter nemmeno rispondere a tono come è invece concesso ai concorrenti del programma che si è concluso – ci pare ma con gli strascichi delle ospitate non è così evidente – la scorsa settimana. Come accade due volte all’anno, lo stilista venezuelano sta infatti per recarsi a Riad alla corte dei reali sauditi, gli Al Saud, dove dubitiamo che si concederà battute sull’abilità delle signore di muoversi su un letto o su un tappeto come fa invece a proprio agio con le concorrenti del programma di Raiuno, riuscendo odioso un po’ a tutti, ma in modo particolare alle spettatrici.

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Qualunque cosa pensiate di Guillermo Mariotto e dei giudizi che trancia a “Ballando con le Stelle”, sappiate che è arrivato il suo momento di stare in piedi per ore, di ballare al ritmo di una musica che non ha scelto, di essere giudicato, di doversi correggere in corsa. Questo, senza poter nemmeno rispondere a tono come è invece concesso ai concorrenti del programma che si è concluso – ci pare ma con gli strascichi delle ospitate non è così evidente – la scorsa settimana. Come accade due volte all’anno, lo stilista venezuelano sta infatti per recarsi a Riad alla corte dei reali sauditi, gli Al Saud, dove dubitiamo che si concederà battute sull’abilità delle signore di muoversi su un letto o su un tappeto come fa invece a proprio agio con le concorrenti del programma di Raiuno, riuscendo odioso un po’ a tutti, ma in modo particolare alle spettatrici.

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In Arabia Saudita dovrà cambiare registro e anche ruolo, assumendone uno molto meno esuberante. Dovrà mostrare disegni di abiti o crearne su ispirazione tanto sua quanto, e soprattutto, delle sceicche. Dovrà sorridere, assecondare, compiacere. Assegnerà un bel dieci a ogni idea, ogni dettaglio, ogni ricamo e lo farà la notte, perché le signore gradiscono ricevere consigli di moda e provare vestiti la sera, al termine dei propri ricevimenti, quando sono ancora elettrizzate, cariche, felici. Continueranno a divertirsi per ore parlando di sfilate, di vestiti, di tagli e di lavorazioni di cui le occidentali non hanno più idea da almeno due generazioni, un po’ perché non possono permetterseli, un po’ perché da diversi anni si sono appassionate alla moda usa-e-getta alla faccia dello stato di salute del pianeta per il quale, a ogni buon conto, scrivono post pensosi sui social. Le sceicche, anche quelle più impegnate per i diritti della donna come s’è ascoltato all’ultimo W20 (il passaggio di consegne alla delegazione italiana avverrà a giorni) non si dibattono fra questi dilemmi di consumo responsabile, perché acquistano solo pezzi unici.

 

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Di età variabile dai diciotto ai settant’anni, curatissime, non necessariamente nullafacenti e comunque cosmopolite, confrontano collezioni, provano, conversano, danno suggerimenti, bevendo tè speziati e mangiando dolcetti al miele e avanzando richieste per ore, un po’ come il monsieur Jourdain del Borghese Gentiluomo che se la prende comoda a provare le calze nuove e indossare la “vestaglia di indiana perché gli uomini di classe si vestono così”, mentre i fornitori ossequiosi si profondono in inchini e motteggi “siamo qui per vostro comodo”. All’alba finalmente si ritirano, pronte per una lunga mattinata di riposo. Ma Mariotto non può fare altrettanto, perché deve mettersi subito al lavoro sui disegni, trovare soluzioni, escogitare accorgimenti fino a sera, quando dovrà rispondere a una nuova convocazione, a una nuova prova notturna, all’invito di una nuova cliente.

 

In via Toscana a Roma, sede storica della sartoria fondata dalla formidabile Fernanda Gattinoni nel secondo Dopoguerra, dicono che il loro stilista tanto esuberante rientri stremato da queste visite in Arabia Saudita che durano fino a venti giorni, ma che non abbia altra scelta: i pochi clienti italiani che vestivano alta moda sono sostanzialmente scomparsi, quelli europei scelgono altre destinazioni, in genere Parigi, quelli cinesi idem, quelli africani sono terreno di caccia privilegiato dei Dolce&Gabbana e dei loro abiti modificabili in ventiquattr’ore su ogni taglia. Dunque, viva l’Arabia Saudita e limitrofi, dove l’apparenza è ancora sostanza, e la lunga fila dei fornitori di abiti si affianca a quella dei calzolai, dei produttori di borse, di gioielli, che devono essere tutti in copia unica, preziosi, di eccellente fattura, realizzati con il contributo fattivo della committente come settecento, cinquecento, trecento anni fa. Una lunga carovana favolosa di artigiani, stilisti, creatori, circondata da un sottobosco di faccendieri e facilitatori incredibilmente simili alle contesse De la Motte dell’Affare della collana di Maria Antonietta; certi ruoli non hanno confine, non hanno scadenza storica. Possiamo farci un’idea precisa di come si svolgessero queste pratiche, e di come in buona parte si svolgono tuttora, osservando il “Sarto” del Longhi conservato alle Gallerie dell’Accademia di Venezia mentre mostra una andrienne già cucita alla dama che saggia la qualità del tessuto (si tratta, ancora, di un’“indiana” o calicò, la tela di cotone stampato e dipinto dalle industrie di Calicut che vestì l’Europa fino a quando l’Inghilterra non decise di ribaltare gli equilibri mondiali della produzione spostando l’asse sulle Americhe con le conseguenze che vediamo tuttora, Black Lives Matter compreso).

 

Forse però nessuno, in tempi recenti, ha reso meglio la natura e la seduzione di questi piccoli eventi meglio di Sofia Coppola nella sequenza della riunione di prova e acquisto scarpe, tessuti, gioielli di “Marie Antoinette”, fra cupcake, champagne e scarpette. La favola dei vestiti per il mestiere più rappresentato dalle favole, che è il sarto demiurgo, disvelatore di bellezza e anche di sanzionabili vanità. Fino all’emergenza Covid, gli italiani investivano nell’abito da sposa per la figlia anche decine di migliaia di euro, ma la sospensione delle cerimonie ha inflitto un altro colpo a un sistema, quello dell’abito su misura, già molto fragile.

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Dunque, Mariotto si prepara a salire su un aereo seguito dalla première, a sottoporsi a tampone e periodo di osservazione e quindi al tour de force. Non il solo, e non lo è da oggi. Il sarto di gran nome a domicilio, in ginocchio ad appuntare spilli, drappeggiare stoffe, nascondere eccessi alimentari con una piega strategica, valorizzare spalle, collo, mani, caviglie o anche niente, non è affatto la figura che molti credono sia stata decapitata con i nobili e i creatori di parrucche incipriate delle stampe di Antico Regime. Anzi. Tutti i grandi stilisti di oggi viaggiano ben più di quanto facesse la celebre Rose Bertin, la modista di Maria Antonietta, la “ministra della moda” anche lei rappresentata nel film di Coppola, che quasi ogni giorno percorreva i trenta chilometri dal faubourg Saint Honoré a Versailles per soddisfare i desideri e gli ordini della sua cliente speciale. Se tanti si sono stupiti di vedere il direttore creativo di Dior, Maria Grazia Chiuri, mentre apportava gli ultimi tocchi all’abito da sposa di Chiara Ferragni a pochi minuti dalla cerimonia nel documentario “Unposted”, è perché non sanno che, amicizie personali a parte, negli anni Donatella Versace ha fatto lo stesso per spose milionarie indiane o americane, che lo stesso fa Antonio Grimaldi e hanno fatto Renato Balestra, Raffaella Curiel e che vorrebbe in buona sostanza fare chiunque, soprattutto adesso.

 

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Stabilire un rapporto di fiducia con gli emirati, o il Kuwait, o appunto l’Arabia Saudita, il Texas, New Delhi, Mumbai, per anni ha rappresentato il sogno proibito di decine di creatori di moda; in dieci giorni, si raccoglievano e ancora si raccolgono ordini per uno, tre, cinque milioni di euro, che compensano non solo il mantenimento dell’atelier ma anche, magari, gli scarsi investimenti in pret-à-porter, e-commerce, social. Quanti cappellini, quante cinture, quante borsette bisogna vendere ai ragazzini attaccati a Instagram e TikTok per equiparare un solo ordine come quello?

 

Non tutti gli atelier di un tempo sono diventati multinazionali come Valentino; alcuni hanno faticosamente mantenuto quella dimensione artigianale che, in questi anni di rivalutazione del localismo produttivo, godrebbe dello status di plus, non fosse che per restare tale ha bisogno di molto denaro e dunque sta progressivamente cedendo le armi proprio alle multinazionali, che ne sfruttano l’appeal per potersi dichiarare campioni di sostenibilità e aiuto alle piccole imprese. Dunque, se negli ultimi vent’anni la consulenza a domicilio è stata un piacere, un’occasione per fare festa e “coccolare”, come usa dire, i clienti migliori, ora bussare alla porta dei ricchissimi è diventata una necessità. Purtroppo, però, le limitazioni negli spostamenti, le barriere e le quarantene imposte ai viaggiatori intercontinentali hanno reso questi viaggi dispendiosi anche in termini di tempo: Giulio di Sabato, presidente di Assomoda e Cavaliere al Merito della Repubblica di fresca nomina, ha atteso per esempio due settimane chiuso in una stanza d’albergo collegata all’aeroporto di Shanghai, senza poter uscire nemmeno in corridoio, per poter partecipare alla fiera del lusso aperta a inizio mese con altre imprese italiane. Per fortuna, i social e le piattaforme online che fino all’altro ieri gli artigiani e i piccoli produttori del lusso snobbavano sono venuti loro in soccorso, e da qualche mese le presentazioni, i ricevimenti, le prove in teletta (traduzione: l’abito di prova, realizzato in cotone prima di essere riprodotto sul tessuto scelto; sì, il termine toilette viene da qui, dalle lunghe mattinate che le dame di un tempo trascorrevano in prove e acconciature incipriate, protette appunto da una teletta incerata) si fanno a distanza. I più sofisticati inviano al cliente un invito cartaceo, dove gli danno appuntamento su Zoom, e una piccola scelta di ritagli di tessuti.

 

“Di tutti possediamo già le misure e conosciamo i gusti: riusciamo a garantire un servizio dedicato anche a migliaia di chilometri di distanza”, dice Gianluca Isaia, che in questi mesi ha addirittura rafforzato il suo servizio sartoriale personalizzato, ispirato alla tipica custodia color corallo dei suoi abiti. “The red bag”, la borsa o housse, simbolo di trasporto, cura del capo, servizio, è stata progettata come un’esperienza a distanza che include l’invio dei campioni di tessuto in anteprima e la realizzazione, insieme con il vestito, di un’etichetta dedicata in pelle. Il primo incontro via chat si è svolto qualche giorno fa a San Francisco, nella boutique Isaia che, essendo soggetta a restrizioni ma non a chiusura, ha potuto accogliere un cliente dopo l’altro. Il patron era in ufficio a Napoli, anche lui come Mariotto impegnato in chiacchiere e consigli fino a mattina, in questo caso per via del fuso orario, ma con gli stessi effetti. Quando gli parliamo sono le undici del mattino, è felice di aver venduto abiti “ma soprattutto capi sportivi, com’è logico visto il periodo dove quasi nessuno va in ufficio”, e non si è ancora ripreso dalla stanchezza. Fra pochi giorni, lo stesso evento si ripeterà a Los Angeles, in attesa dell’apertura della nuova boutique di Chicago, piazza da sempre molto interessante per l’arte, la cultura e la moda, ancorché incredibilmente snobbata dagli italiani ancora abbagliati dalla Grande Mela. “In questo periodo non si può perdere neanche la vendita di uno spillo, mia cara”, dice, conscio che fra la sede di Casalnuovo, Milano e le venti boutique sparse nel mondo, quasi tutte controllate direttamente, ha qualche centinaio di persone da stipendiare e, come migliaia di altre aziende italiane, anche lui ha anticipato la cassa integrazione: “Sono sicuro che alla fine della pandemia avremo una ripresa velocissima, la storia insegna; ma fino ad allora, bisogna tenere duro”. E dunque viva i brindisi via chat e le notti in bianco.

 

La pratica dell’evento digitale e diffuso funziona a tal punto da essere diventata prassi anche per le aziende di moda con la stampa: per l’ultima sfilata di Valentino a fine settembre, a cui molti dovettero assistere esclusivamente in streaming, vennero consegnate a casa due mignon di GinRosa. Altri, fra cui Prada, inviarono generi di conforto come piccoli sandwich e pasticcini. Tutti si sforzano di rendere “the digital experience” meno digitale possibile. Qualche giorno fa, per il GucciFest, una settimana di short movies firmati da Alessandro Michele e Gus Van Sant per promuovere la nuova collezione, è arrivato a casa il kit completo del piccolo spettatore, modello Biennale Cinema, con shopper in tela, spillette, quadernino per gli appunti. Ci ha raggiunte davvero lontano, nel luogo dove ci siamo rifugiate per sfuggire a un secondo lockdown chiuse in un appartamento in città ad ascoltare le sirene delle ambulanze, con il messo che strillava dal cancello: “Scusa, sei tu Fabiana, ho qui un pacco”. Abbiamo riso per mezz’ora, ci ha fatto bene.

 

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