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La t-shirt politica

Fabiana Giacomotti

Vestirsi dalla parte giusta del mondo è diventata una moda. Ma solo alcuni fanno delle magliette una tela da dipingere

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Un anno fa, la stilista inglese Katharine Hamnett venne a Milano per il lancio di un progetto con Jeremy Deller alla galleria Corso Como 10. Le ragazzine che negli ultimi anni sono corse a comprarsi la t shirt di Dior con la scritta “we should all be feminist” continuando in gran parte a sognare un principe azzurro che, stando alle ultime ricerche, le mantenga a vita, probabilmente non sanno che le magliette fine a sfondo politico-attivista nascono da lei, figlia di diplomatici etnico-diversificati educata a Cheltenham, cioè il prototipo della radical chic d’Oltremanica, che nel 1983 vestì George Michael con la scritta “Choose life” nel video di “Wake me up before you go-go”.

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Un anno fa, la stilista inglese Katharine Hamnett venne a Milano per il lancio di un progetto con Jeremy Deller alla galleria Corso Como 10. Le ragazzine che negli ultimi anni sono corse a comprarsi la t shirt di Dior con la scritta “we should all be feminist” continuando in gran parte a sognare un principe azzurro che, stando alle ultime ricerche, le mantenga a vita, probabilmente non sanno che le magliette fine a sfondo politico-attivista nascono da lei, figlia di diplomatici etnico-diversificati educata a Cheltenham, cioè il prototipo della radical chic d’Oltremanica, che nel 1983 vestì George Michael con la scritta “Choose life” nel video di “Wake me up before you go-go”.

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L’anno dopo, la giovane Katharine corse a stringere la mano a Margaret Thatcher sfoggiando sul petto una scritta anti-Pershing (si era in piena battaglia contro le basi missilistiche americane in Europa) e venne inaspettatamente accolta con entusiasmo: “Finalmente una novità” cinguettò la premier, felice di una photo opportunity che sarebbe entrata nella storia e facendola secca come è evidente dal body language dell’immagine: la Thatcher dritta come un fuso nel suo abito da sera di velluto che sorride affettando soddisfazione, la Hamnett tutta contorta nella sua maxi t shirt con i piedi rivolti all’indentro. Fiocco di seta vince scarpe da ginnastica oversize uno a zero.

 

 

 

L’inventore delle t-shirt a sfondo politico-sociale è il governatore di New York Thomas E. Dewey. Correva l’anno 1948

Peraltro, l’inventrice delle t-shirt a sfondo politico-sociale non è nemmeno lei, ma il governatore dello stato di New York Thomas E. Dewey che, per la propria campagna elettorale del 1948, inventò uno slogan particolarmente accattivante, “Dew it with Dewy” (qualcosa del genere “sguazza con Dewy”) e ne vestì i suoi supporter. Non vinse, ma la sua idea tornò utile a Dwight Einsenhower per la corsa alla Casa Bianca, quattro anni dopo, con i risultati che si sanno.

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Per tornare a quel 2019 pre-Covid che sembra preistoria, Katharine Hamnett invece stava lì, fra le piante rampicanti dello spazio già di Carla Sozzani, indossando occhialoni neri e una maglietta nera con la scritta “Siamo tutti migranti” nei colori della bandiera italiana. Forse pensava di tendere un agguato a Matteo Salvini, ma più probabilmente per raggiungere lo scopo le bastava il capannello di fotografi che la stava bersagliando di flash, perché non ci sembra di ricordare che la mattina dopo si scapicollò alla sede della Lega per dare la caccia al leader come si era presentata quarant’anni prima a Downing Street. Ci offrì invece una t-shirt, che scegliemmo di non accettare ma grazie infinite, perché finora abbiamo avuto la fortuna di poter scrivere le nostre idee su carta senza dovercene fare poster ambulanti e finire magari per questionare con sconosciuti antipatici per strada; la indossammo sul momento per la foto di rito e lei ci raccomandò di farci un esame del Dna per conoscere le etnie di cui eravamo impastate, al che rispondemmo certamente, perché squadernargliene tutte avrebbe scatenato lì per lì una competizione sul rispettivo meticciato e tornammo al nostro pc senza l’obbligo di dover riporre nei cassetti un’altra di queste t-shirt intelligenti che, viste tutte insieme, ci raccontano meglio di un saggio sociologico l’evoluzione del sentimento popolare degli ultimo quarto di secolo e anche l’abilità di alcuni di sfruttarle a scopi commerciali sull’onda dell’emozione del momento. Prendete le magliette del movimento Black Lives Matter. Nel giro di un mese ne sono nate così tante varianti che l’altro giorno il sito Complex elencava quelle ufficiali o, per meglio dire, quelle i cui proventi sarebbero andati a finanziare le attività delle organizzazioni no profit riconosciute dalla causa black negli Stati Uniti, tipo la Chicago Community Bail Fund o la Northside Achievement Zone della zona nord di Minneapolis; tutte onlus certamente efficaci e perbene che però, purtroppo, pochi conoscono.

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Scorrere il dito fra la pila delle magliette, talvolta due o tre o anche quattro, equivale a sfogliare l’album dei ricordi

Il resto del mondo desideroso di dire la sua facendosi semplicemente leggere il torace si rivolge infatti ad Amazon o ad Etsy, dove la grafica del BLM si mescola a quella delle Black Panther, che è un po’ come la faccenda del femminismo: orecchiabile, molto Sixties dunque cool, e poi la maglietta costa dai cinque agli otto euro. Neanche un centesimo va alle organizzazioni pro-causa black, ma avrete capito che per la maggior parte di chi si veste di slogan politici non è questo il punto; il punto è di vestirsi dalla parte giusta del mondo nel momento giusto, che è anche la ragione per la quale, negli Stati Uniti, la vendita delle t shirt arcobaleno quest’anno è calata del 58 per cento rispetto al 2019. Fra le proteste per l’uccisione di George Floyd e l’emergenza coronavirus, che ha cancellato quasi in tutto il mondo e ad eccezione di un’epica biciclettata milanese le parate e le manifestazioni pubbliche pro causa Lgbtq, la gente si è semplicemente dimenticata del Pride, o l’ha fatto scivolare al rango di second best nella propria graduatoria personale. Sapete com’è nella comunicazione: bisogna farsi ricordare, esattamente come i detersivi che uno si domanda sempre perché continuino a farsi pubblicità in televisione quando tutti sappiamo che esistono e invece no, bisogna periodicamente ricordare a tutti di comprare il Dixan e l’ovetto assorbiodori per il frigorifero.

 

Jeff Bezos, diabolico, ha riunito tutte le cause del momento in una maglietta sola che elenca “pride, equality, unity, resist, love, human rights, diversity”, tutti declinati, ça va sans dire, su fondo arcobaleno. Per venti dollari ci si guadagna l’assunzione nel paradiso del politicamente corretto; poi il punto sarà come spiegare ai congiunti tutte le faccende in cui ci si è fatti coinvolgere, dove e perché. Se proprio si deve o si vuole usare una t shirt per dire qualcosa, meglio dunque focalizzare un obiettivo unico, preciso e almeno in ipotesi facilmente raggiungibile, che è quanto devono essersi detti Lapo Elkann con la sua associazione onlus Laps e Gianluca Isaia quando hanno deciso di lanciare la t-shirt in edizione limitata “Abbracciame” (foto sotto), di cui avevamo dato anticipazione sul Foglio di qualche settimana fa e che adesso va in vendita, con la sua grafica illusoria iperrealista dell’abbraccio che sembra un po’ Commedia dell’Arte e un po’ il vecchio gimmick di Fonzie di Happy Days, una numerazione progressiva da uno a 1977, l’anno di nascita di Lapo, e un prezzo amateur di novantanove euro. Il ricavato, dice Isaia che punta a raccoglierne almeno 150 mila, verrà interamente devoluto ad organizzazioni di beneficenza che operano sul territorio napoletano, in zone a rischio come Scampia e il Rione Sanità, per esempio l’Associazione Achille Perillo & Chiara Blandini Onlus, nata da un pool di imprenditori partenopei “pronto a individuare e supportare qualsiasi situazione o iniziativa meritevole di aiuto e sostegno concreto” e che per tutta l’emergenza si è incaricato di fare la spesa e di distribuirla a centinaia di famiglie.

 

  

Durante il lockdown, Isaia mise in vendita una t-shirt che invitava a tenere duro nella prosa dell’Eduardo De Filippo di Napoli Milionaria: “Ha dda passà ‘a nuttata”. Racconta che hanno funzionato benissimo e gli crediamo certamente perché l’ha fatto anche con noi. Ogni tanto la tiriamo fuori dal famoso cassetto delle cause depositate, la guardiamo e ci riflettiamo sopra un attimo. Per certi versi, e al di là degli scopi non di rado autopromozionali ovvero incensatori, le t-shirt etico-sociali hanno una funzione terapeutica vera, se non addirittura taumaturgica; diciamo che contribuiscono a sgonfiare certe incazzature potenti, un po’ come Change.org che talvolta ci domandiamo che razza di cause del piffero lanci, praticamente casi singoli e faccende risibili di multe automobilistiche e poi invece ci rendiamo conto che il solo fatto di aver scritto la petizione ha raggiunto lo scopo di calmare l’animo di chi l’ha lanciata. Con la t-shirt va allo stesso modo, e infatti non è un caso che in qualunque cittadina, fosse pure un rifugio marittimo come Santa Margherita Ligure dove ci troviamo adesso perché questo disgraziato smart working che farà fallire i bar e i ristoranti cittadini si è trasformato in una villeggiatura operosa sine die, ci sia almeno un laboratorio fotografico che affianca la realizzazione di t-shirt a quella dei selfie di cui rischiamo di scordarci al prossimo cambio del cellulare e che dunque devono essere stampati perché se ne conservi la memoria, alla faccia dell’evoluzione digitale del mondo.

 

Scorrere il dito fra la pila delle magliette, talvolta due o tre o anche quattro, equivale a sfogliare l’album dei ricordi: la t-shirt dell’ultima edizione di Convivio con il pupazzetto di un virus che accidenti somiglia molto a Covid-19 nella sua rappresentazione più universalmente praticata che è quella infantile, adattissima alla società polemica e tendenzialmente deresponsabilizzata del momento; quella dell’ultima mostra furbacchiona di Damien Hirst che trovammo in camera per l’anteprima e che ci diede sui nervi perché neanche in una fonderia europea, era andato a far forgiare quelle brutte statue esposte a cento metri dalla meraviglia della quadriga di San Marco, e si vedevano perfino le smarginature; quella dell’unica mostra sponsorizzata da Roberto Cavalli al Metropolitan, nel 2004, e che disgrazia che l’azienda stia andando davvero a rotoli e che tanti se ne stiano approfittando copiandone gli stilemi e poi indietro nel tempo fino ai giochi di parole di quegli impuniti dei bottegai romani su Versace (“n’artro litro”) e Armani-“comio”. Magliette delle feste dei quaranta e poi cinquanta e poi e poi degli amici e persino una serie lanciata da noi per aumentare le vendite di un saggio che, qualche anno fa, era giunto alla seconda distribuzione, ed eravamo andate a cercare una società di Parma specializzata in “meglio maglie” (non l’abbiamo inventato qui sul momento: è lo slogan maison). Insieme inventammo un modello dalla scollatura modaiola e grazie ai buoni uffici dell’editore la piazzammo nella vetrina della libreria Rizzoli in Galleria: successo modesto di vendite, ottimo in termini promozionali, che era poi lo scopo dell’operazione. Nessuno si sognerebbe mai di indossare una t-shirt di Convivio fuori tempo massimo, magari stinta dai tanti lavaggi che mette pure tristezza, e aspettiamo di vedere che ne sarà di quelle Black Lives Matter a fine estate e quando sarà finita, perché a queste condizioni finirà presto, quella brutta e violentissima copia della Comune di Parigi che è stata instaurata a Seattle da una frangia di aderenti alla causa. 

 

Pubblicità, raccolta fondi, memoria, propedeutica, psicologia spicciola: a questo servono le t-shirt etico-politiche. Sono bandiere, vessilli, testimonianze del momento. L’hic et nunc del tessile-abbigliamento. Due anni fa, il Textile Museum di Londra organizzò una mostra sul “ruolo sovversivo della tee”, lasciandone lo slogan a Vivienne Westwood: “Se conosci il tessuto, e conosci il tuo corpo, la t-shirt è una tela da dipingere”, sentenziò. Difficile darle torto. Volendo scorrere i siti online ci sono anche consigli per ideare slogan vincenti e una serie pressoché infinita di immagini da colorare e combinare a piacere. Nulla di paragonabile alle t-shirt artistiche di Isaia, si intende. Però si possono sperimentare le proprie capacità artistiche a prezzo contenuto.

Ultimamente va forte anche il modello del gaming digitale, cioè la versione app da applicare sulle proprie foto, vedere l’effetto che fa e lanciarla sui social. Ne stiamo testando un paio con un gruppo di studenti e il risultato, in via di pubblicazione su Instagram, è un po’ rigido ma buono. Un gioco, appunto.

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