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Il virus ha costretto la moda a ripensare un modello che non ce la faceva più

Fabiana Giacomotti

Le novità di Gucci e le opportunità che si aprono

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Nel mondo parallelo che non si è mai trasformato in realtà, in queste ore Gucci avrebbe finito di smontare l’allestimento della sfilata Cruise nella Baia di san Francisco. Nel mondo modellato sul Coronavirus che pare condividere più di un punto con la filosofia bergsoniana della percezione temporale autonoma e irripetibile, il Fisherman’s Wharf di San Francisco è andato a fuoco, si contano per il momento 345 mila morti di Covid-19 e, dopo Saint Laurent, anche Gucci ha detto basta alle cinque sfilate annuali: se ne faranno due (quella autunnale verso fine settembre per non stressare la produzione), di capi talvolta riproposti e con un occhio di riguardo al genderless, esperimento sociale che il direttore creativo di Gucci, Alessandro Michele, domina come nessun altro e che prenderà il nome di MX.

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Nel mondo parallelo che non si è mai trasformato in realtà, in queste ore Gucci avrebbe finito di smontare l’allestimento della sfilata Cruise nella Baia di san Francisco. Nel mondo modellato sul Coronavirus che pare condividere più di un punto con la filosofia bergsoniana della percezione temporale autonoma e irripetibile, il Fisherman’s Wharf di San Francisco è andato a fuoco, si contano per il momento 345 mila morti di Covid-19 e, dopo Saint Laurent, anche Gucci ha detto basta alle cinque sfilate annuali: se ne faranno due (quella autunnale verso fine settembre per non stressare la produzione), di capi talvolta riproposti e con un occhio di riguardo al genderless, esperimento sociale che il direttore creativo di Gucci, Alessandro Michele, domina come nessun altro e che prenderà il nome di MX.

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Della questione, naturalmente, le sfilate e il loro linguaggio ormai desueto (le ultime signore che abbiano dato un senso alle collezioni crociera sono state le nostre nonne che a fine gennaio in effetti si imbarcavano sui transatlantici Costa e Lauro provviste di guardaroba nuovo fiammante) sono solo un dettaglio. Dietro c’è molto altro, e l’affettuosa e poetica conferenza stampa virtuale che il direttore creativo Alessandro Michele ha tenuto ieri dal suo studio creativo alle spalle di piazza Navona per un gruppo ristretto di giornalisti e di analisti ha cosparso di petali di rose, le rose “immobili, sospese nel silenzio” del suo terrazzo, quella che in realtà è un’esigenza ormai improcrastinabile del mercato. Rallentare, ridare fiato al sistema produttivo e valore ai capi, cioè orgoglio a chi li acquista (e sono sempre meno persone, come ben sanno Chanel e Vuitton che infatti, consci di aver perso almeno per un bel po’ la fascia bassa del mercato, hanno alzato i prezzi) e favorire il circolo virtuoso del riutilizzo e del resale, cioè la rivendita di usato di qualità, che è qualcosa di molto medievale e dunque di molto attuale, in questi tempi che vanno ri-tarandosi sul concetto di benessere comunitario.

 

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Oltre alla scelta di Gucci e in generale del gruppo Kering (sul tema stanno intervenendo tutti, ad eccezione del gruppo di Bernard Arnault), chi spende seicento, duemila o anche diecimila euro in un accessorio o in un capo anche di pret-à-porter non può infatti trovarlo in saldo un mese dopo o sostituito da una nuova e ipotetica tendenza a due settimane. In parallelo, chi crea deve avere il tempo per farlo, e anche il modo, senza stressare troppo, o tanto meno svilire, artigiani e produzione. “Il made in Italy ha bisogno di carezze”, dice Michele con felicissima sintesi. Negli ultimi vent’anni, gli sono stati dati invece molti schiaffi: la delocalizzazione, il taglio dei margini a favore di quelli dei “fat cat” del sistema e cioè le multinazionali, i ritmi impossibili di consegna, lo strapotere dei “copy cat” e cioè del fast fashion.

 

Poche ore prima della conferenza stampa di Gucci, abbiamo ritrovato una pubblicità di Moschino degli anni Novanta: “Stop the fashion system”, titolava. Era meno ironico di quando credessimo in quegli anni. Il modello della crescita continua a due-tre cifre e della replica just in time rappresentata dalle catene come H&M e Zara, ha infatti coperto il pianeta di abiti di scarso valore, cuciti da centinaia di migliaia di sarti sottopagati, e per di più difficilissimi da smaltire. Ci voleva quasi mezzo milione di morti e una crisi di portata mondiale per costringere la moda a fermarsi e a ripensare un modello che non è più economicamente sostenibile e sempre meno interessante per chi ha ancora il denaro per comprare.

 

Non regge, anche eticamente, il fast fashion. Non ha più senso continuare a foraggiare la zona grigia del sistema, il mercato parallelo che ha permesso a mercati come la Cina di diventare il primo al mondo per crescita dei consumi di lusso: anche i cinesi stanno rivedendo la propria scala dei valori. Dice Alessandro Michele che questo nuovo ordinamento, meno tarato sulla legge del più forte, permetterà anche ai marchi più piccoli di emergere. E’ quello che sperano tutti.

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