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Paccheri di moda

Fabiana Giacomotti

Da Palazzo Corsini all’aeroporto. E una location pure nel Sepolcreto. Campionario delle cene degli stilisti, dove il cibo viene dopo l’effetto sorpresa

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Scrive Giacomo Leopardi nel suo “Dialogo fra la Morte e la Moda” che le similitudini sono tali e tante da rendere pressoché impossibile stabilire una supremazia: “Se noi avessimo a correre insieme il palio, non so chi delle due si vincesse la prova, perché se tu corri, io vo meglio che di galoppo”, dice la moda alla morte, portando per esempio bustini deformanti, fasce, scarpe strette e, naturalmente, i cambiamenti vorticosi delle tendenze, che nel 1824 delle “Operette Morali” sono definite “natura di rinnovare il mondo” , ma indicano naturalmente l’attuale e ubiquo “trend”. Se nell’arte fra il Barocco e l’Ottocento il tema della vanitas viene rappresentato indifferentemente con illustrazioni di esseri umani agghindati e imparruccati o di nature morte a olio di teschi e di fiori (in particolare tulipani che all’epoca erano i più costosi, i più desiderati e i meno duraturi) è dunque del tutto giustificato che Gianluca Isaia, la cui nuova collezione uomo 2021 si ispira alla Napoli sotterranea, abbia invitato domani sera stampa e compratori a un pranzo nell’Archivio e Sepolcreto della Ca’ Granda di Milano, fra gli affreschi del Volpino e le boiseries del Capitolo d’Estate.

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Scrive Giacomo Leopardi nel suo “Dialogo fra la Morte e la Moda” che le similitudini sono tali e tante da rendere pressoché impossibile stabilire una supremazia: “Se noi avessimo a correre insieme il palio, non so chi delle due si vincesse la prova, perché se tu corri, io vo meglio che di galoppo”, dice la moda alla morte, portando per esempio bustini deformanti, fasce, scarpe strette e, naturalmente, i cambiamenti vorticosi delle tendenze, che nel 1824 delle “Operette Morali” sono definite “natura di rinnovare il mondo” , ma indicano naturalmente l’attuale e ubiquo “trend”. Se nell’arte fra il Barocco e l’Ottocento il tema della vanitas viene rappresentato indifferentemente con illustrazioni di esseri umani agghindati e imparruccati o di nature morte a olio di teschi e di fiori (in particolare tulipani che all’epoca erano i più costosi, i più desiderati e i meno duraturi) è dunque del tutto giustificato che Gianluca Isaia, la cui nuova collezione uomo 2021 si ispira alla Napoli sotterranea, abbia invitato domani sera stampa e compratori a un pranzo nell’Archivio e Sepolcreto della Ca’ Granda di Milano, fra gli affreschi del Volpino e le boiseries del Capitolo d’Estate.

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Il business impone di vedersi a cadenze regolari, purché in forma sempre diversa. I tempi della moda non sono mai cambiati 

L’invito reca una di quelle vignette satiriche sulle spartizioni di territori fra regnanti in vesti scheletrite che molto piacevano in epoca vittoriana, periodo sedotto dell’arcano, dall’alterità della natura umana e dal “morbid”, il morboso. “Chi nun more sempe se vede”, sintetizza Isaia con uno di quei proverbi partenopei di cui fa largo uso nella comunicazione del marchio ancorché il problema, con la moda per sua natura caduca, non sia tanto la scomparsa o la permanenza quanto il rinnovamento. Vederla e vedersi a cadenze regolari, una volta ogni tre-sei mesi a seconda del business, purché in forma sempre diversa. A dispetto della nuova retorica sostenibile sull’uso continuativo dei capi, ad aeternum come nel Medioevo, che è una narrazione perfetta per sensibilizzare il pubblico mondiale sull’intima soddisfazione che il comportamento etico porta con sé giustificando nel contempo la “vera qualità”, cioè i prezzi stellari, tempi e modi-della-moda non sono cambiati di una virgola rispetto al primo decennio degli anni Duemila, quando il fast fashion sembrava la nuova frontiera dell’eleganza di massa e provando a dissentire si rischiava l’accusa di elitismo e l’ostracismo pubblico. Semmai si sono fatti più esigenti, sull’onda dei social e della logica della “live story”, cioè della pubblicazione immediata delle immagini e del filmato dell’evento a cui sta partecipando il direttore della testata di moda, dell’inviato di punta o degli influencer.

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Sebbene in numero sempre minore e in forme più selettive e concentrate, gli influencer continuano a frequentare cocktail, presentazioni e soprattutto pranzi dove tutto, dal luogo alla decorazione ai piatti, dev’essere non solo perfetto, ma perfettamente fotografabile, cioè attraente almeno quanto i capi, gli accessori o i gioielli a cui fanno da “splendida cornice”. Gli hashtag sul post saranno infatti contigui, #dinner e #brandX, e dunque l’equiparazione inevitabile. La tovaglia mal stirata riverbererà le proprie pieghe sull’immagine del marchio; la cena modesta o mal servita si trasformerà in un boomerang sulla vendita dei cappotti. Non che nel primo Novecento delle famose cene di Paul Poiret che prevedevano performance di Isadora Duncan e servizio di brodo di tartaruga e ostriche normanne il set non fosse importante, tutt’altro. E’ dai tempi di Trimalcione che il mondo escogita maniere per non annoiare i propri ospiti, e il sarto parigino è stato senza alcun dubbio il primo a trasferire e a vendere nuovi stili di abbigliamento accompagnandoli all’invito a concerti, balli in maschera, pranzi sontuosi. Ma di quelle occasioni, fino a pochi anni fa, sono state conservate solo le quattro foto del professionista ingaggiato per l’occasione, e in tempi più antichi nemmeno quelle, giusto il racconto dei cronisti e degli epistografi più ciarlieri, da cui i dipinti fantasiosi, spesso voluttuosi se non orgiastici, dei pittori di epoche successive, pensate alle “Rose di Eliogabalo” di Lawrence Alma Tadema: per dirla in lessico moderno, lifestyle, amore e morte sepolti sotto tre metri di petali.

 

Nel Seicento, François Vatel poteva gettarsi sulla spada perché non gli era stato consegnato il pesce fresco necessario a soddisfare il principe di Condé che voleva riappacificarsi con Luigi XIV, e avrebbe trovato giusto quel pettegolo di Saint Simon a lasciar traccia del suo suicidio e uno spunto per il regista Roland Joffé, tre secoli dopo. Oggi, gli ospiti del castello di Chantilly si sarebbero affollati attorno al cuoco morente per fissarne su video gli ultimi rantoli, hashtag #agonyatdinner, con panoramica sulle sculture di ghiaccio che si sciolgono a fini simbolici, e l’immagine di Vatel con la bocca schiumante sangue sarebbe rimbalzata fino a Osaka.

 

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Dal fondo di un bacino di carenaggio ad Auckland al parco di Versailles all’aeroporto di Orly; negli anni abbiamo mangiato ovunque

All’alba del 2020, l’allestimento dev’essere non solo seducente, ma anche idiot proof, a prova di idiota dell’obiettivo, da cui l’improvvisa riscoperta dei trionfi barocchi di frutta e verdura e dei buffet approntati come per il “Convito in casa di Levi” del Veronese: si volesse coglierne l’insieme o anche solo un particolare, lo scatto sarebbe comunque riuscito, per la soddisfazione generale e l’aggiunta del noto hashtag #nofilter. Per tutti questi motivi, il “dinner rigorosamente su invito”, la “cena placé” e il “ricevimento privato” di cui si legge sui calendari della moda e che ai neofiti devono apparire sontuosi e raffinati come gli affreschi in rosa Tiepolo, sono dunque fonte di dannazione e di infinite ansie per tutti quelli che lavorano alla loro preparazione, soprattutto fra i grandi espositori di Pitti Immagine. Per quanto la città di Firenze sia meravigliosa – non serve certo che lo si scriva noi – gli spazi adatti ad accogliere decine o anche centinaia di persone nelle zone centrali sono non solo relativamente contenuti, ma sono stati già ampiamente e ripetutamente usati nei sessantacinque anni e le quasi cento edizioni della sola manifestazione “uomo”, cioè senza considerare il Pitti Bimbo, Filati, il network gourmet di Taste e Testo (il nuovo appuntamento che, il prossimo marzo, verrà lanciato come l’alternativa riflessiva e inattesa a quei mercatoni del libro rumorosi e senza guida che sono diventati i saloni di Torino e Milano).

 

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Se pensiamo che negli anni Cinquanta, e di questo esiste un video divertentissimo in Rai Teche, gli ospiti di una delle prime edizioni di Pitti vennero trasferiti alla cena al Forte Belvedere in lettiga e in carrozze a mano come nobili settecenteschi (indossavano anche parrucche, in effetti), capirete come, nel secolo successivo, si sia dato ormai fondo ai luoghi a disposizione e molto anche alle idee. Le “location”, espressione ormai passata di moda, cioè atta a sarcasmi classisti, a favore della più antica e raffinata “venue”, negli anni hanno dunque accorpato stazioni, dogane e manifatture in disuso, ma anche piazze e strade di uso quotidiano alle tradizionali Serre Torrigiani (disinfestazione necessarissima d’estate), oppure Palazzo Corsini, che giovedì ha ospitato la sfilata del marchio agender Telfar, guarda caso un’immensa passerella-su-tavola, ad altezza commensali, fra piatti di portata usati e candelabri sgocciolanti (“how decadent” il commento estatico degli americani). L’apertura della Fondazione Zeffirelli, dove in questi giorni espone Renato Balestra, è stata accolta qualche anno fa con viva soddisfazione, ancorché lo spettacolare oratorio dei Filippini abbia ospitato a lungo il tribunale e sia ancora visibile la gabbia degli imputati. Il chiostro di santa Maria Novella, luogo di refrigerio estivo, è stato invece trasformato in venue invernale all’aperto, vai a capire perché e perché si debbano anche spendere denari per rifornire gli ospiti, cianotici e di cattivo umore, di scaldamani istantanei e poco durevoli, oltre che scarsamente sostenibili. Un minuto dopo essersi insediato alla sovrintendenza del Maggio Musicale Fiorentino, Alexander Pereira vi ha applicato la sua classica formula promozionale con cena sul palcoscenico, da cui nuova venue disponibile e, si spera, un aiuto per il clamoroso buco di bilancio dell’istituzione, circa 50 milioni, un po’ sovradimensionata per le esigenze cittadine.

  

Dal luogo alla decorazione ai piatti, tutto dev’essere perfettamente fotografabile, attraente almeno quanto i capi

L’altro giorno, ci siamo sfidati a colpire barattoli di latta nel luna park allestito da Giorgio Armani per la presentazione della nuova collezione A/X Exchange nella sala della scherma della Fortezza da Basso: in luogo dello zucchero filato di prammatica, tisane allo zenzero, immaginiamo su ordine del più salutista delle nostre star imprenditoriali. Brunello Cucinelli, che per la sua tradizionale cena, minimo cinquecento persone, necessita di spazi importanti, ha affittato il Teatro della Pergola, fra i più antichi del mondo e restaurato di recente: il suo staff l’ha visitato almeno una decina di volte da fine ottobre 2019 all’altro ieri, insieme con il catering della famiglia Cerea, proprietaria di Vittorio che, in questa estetizzazione estrema delle cene modaiole, ha riportato in auge un fattore trascurato per decenni: il cibo. I paccheri, addirittura, una pasta semplice e tradizionale, ma anche difficile da servire se non cotta a dovere e su piatti di porcellana a ospiti seduti. Il pacchero al sugo di pomodoro è il nuovo simbolo della convivialità modaiola, l’ingrediente perfetto per accompagnare lo storytelling sulla manifattura e la filiera completa di cui ci vengono ripetute le meraviglie a ogni inaugurazione, come una liturgia: semplice, raffinato, difficile da emulare per gli stranieri, dunque equiparabile al made in Italy. Storytelling edibile. Dunque pasta corta e grossa ovunque, ideale anche per certi insopportabili vegani. La carne è sostanzialmente scomparsa ma è aumentato il servizio di vino o di olio maison, cioè dello stilista stesso, che sono aggiunta pressoché indispensabile alla narrazione di cui sopra.

 

Gli ospiti di una delle prime edizioni di Pitti vennero trasferiti alla cena al Forte Belvedere in lettiga e in carrozze a mano

In tanti anni di scrittura e di frequentazioni, abbiamo attraversato mondi diversissimi, dalla finanza alla politica, dalle auto al design, e possiamo dirvi con certezza che, se tutti vanno a pranzo la sera alle otto, c’è pure un celebratissimo film dei fratelli Marx a ricordarcelo, quelli della moda vanno a pranzo più degli altri e in forma sempre diversa. I banchieri cenano, pretendono di mangiare bene in un luogo gradevole, meglio se lo stesso altrimenti non si capirebbe il perché di tutte quelle cene al Boeucc o al Baretto un secolo dopo l’altro, con i carciofi e i gamberi stracotti e insipidi: amano essere riconosciuti e ossequiati, sentire il proprio nome pronunciato con tono stentoreo e moti di meraviglia. A chi frequenta il settore delle auto, in genere, piace viaggiare, meglio se in “compagnia della gentile signora”, e poi lamentarsi che il risotto alle Maldive non è granché. La moda invece vuole novità, da godersi anche da sola, anzi meglio, in modo da poter postare subito le immagini e scriverne poi sulla vecchia e cara stampa che, alla fine, dà sempre le sue soddisfazioni in termini di prestigio. Negli anni, a dispetto delle crisi e talvolta delle guerre, abbiamo mangiato ovunque: sul fondo di un bacino di carenaggio a Auckland e nel parco di Versailles; nella residenza della regina Vittoria sull’Isola di Wight, la famosa Osborne House che raccoglieva gli acquerelli suoi e dell’adorato Alberto, ma anche nel deserto marocchino e sulla strada fra Tel Aviv e Cesarea; abbiamo resistito agli spifferi nell’hangar dell’aeroporto di Orly ed evitato i fuochi accesi fra le tombe dei romanticissimi Alyscamps di Arles (a proposito), e questo senza contare gli inviti nelle residenze private, vedi Ferragamo, Cavalli, Valentino o, come nel caso dei Cucinelli, nelle piazze di borghi sostanzialmente privati. La scorsa stagione, Etro ha risolto la questione allestendo nel proprio stile Bice, uno dei pochi ristoranti milanesi che abbiamo superato epoche e mode senza colpo ferire e dove si continui a mangiare secondo quella tradizione culinaria alla Artusi che adesso sarà pure l’epitome dello chic, ma che sotto sotto nessuno ha mai voluto abbandonare. La buona notizia è che sono spariti i “bicchierini” del finger food e sono ricomparsi i taglieri e i piatti di portata, a loro volta ideali a scopi social e soprattutto, ça va sans dire, sostenibili cioè lavabili e riutilizzabili. Ci accorgemmo che sarebbero durati poco un paio di anni fa, quando contribuimmo ad allestire il buffet di un convegno di facoltà dove serviva far bella figura con gli ospiti di riguardo del “fescion” in arrivo da Milano. I dipendenti delle segreterie, che sempre accorrono a frotte in queste occasioni, afferrarono un paio di quei contenitori titubanti, armeggiando con i bicchierini e i cucchiaini che era stata comunque un’impresa procurarsi a Roma e riempire con il poco necessario a non farli traboccare. Dopo una buona mezz’ora di quell’andirivieni, uno di loro prese coraggio e si avvicinò, parlando in evidenza a nome di tutti: quando arriva il cibo vero, nelle teglie? Sembrava la scena del consommé del Gattopardo, dunque non poteva che finire a grugniti di soddisfazione per il ritorno del sartù. Anzi, dei paccheri.

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