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Per redimersi Starbucks apre i bagni a tutti

La catena dice di voler realizzare la sua vocazione di luogo “terzo” nella società civile americana. Ma ci sono dei problemi

Il mese scorso c’è stato un gran tumulto quando, a Philadelphia, la polizia ha arrestato due afroamericani che erano in attesa di usare il bagno di Starbucks, senza aver consumato nulla. Per qualche ragione i commessi hanno allertato le forze dell’ordine, che con proverbiale tatto hanno ammanettato e rimosso i due, colpevoli soltanto di avere tentato di usare la toilette. La ragione che ha indotto i commessi all’azione è stata decretata a furor di popolo: razzismo. Il ceo, Kevin Johnson, ha fatto un tour globale di scuse e ha annunciato un pomeriggio straordinario di chiusura di tutte le ottomila e più caffetterie per fare un corso di formazione speciale sul “pregiudizio razziale implicito”, quello che si portano dentro anche quelli che non sanno di averlo. Ma la sessione rieducativa, prevista per il 29 maggio, non era sufficiente. Starbucks ha radunato il management e tutte le sue forze migliori per riformare la sua politica sull’uso dei bagni e, in generale, sull’occupazione dei locali da parte di chi non consuma. Lunedì il colosso del caffè ha annunciato la riforma: i bagni saranno aperti a tutti, pubblico pagante e non, e le porte saranno sempre aperte, quasi a trasformare il locale in un “santuario”, parola dal sapore magico nell’epoca dei muri – più minacciati che costruiti – di Trump e della resistenza delle comunità urbane pronte ad accogliere i clandestini.

 

Con questa apertura, la catena dice di voler realizzare la sua vocazione di luogo “terzo” nella società civile americana: non un posto di solo commercio e nemmeno di svago gratuito, ma qualcosa di intermedio e molto inclusivo. Una via di mezzo fra la casa e il luogo di lavoro, fra la scuola e la biblioteca, un contesto in cui scambiare idee e crescere nella consapevolezza civica. La manovra è stata subito applaudita come l’inizio della redenzione da tutti quelli che erano ancora scandalizzati dall’episodio di Philadelphia, ma allo stesso tempo sono emerse alcune perplessità: come ci si comporta con gli homeless che usano i bagni per l’igiene personale? Se tutti i tavoli sono occupati da gente che non consuma e chi paga il caffè non trova posto? Che si fa con quelli che si sdraiano sui divanetti per dormire? Con quelli che usano il locale come base dello spaccio?

 

Starbucks ha messo subito la marcia indietro, spiegando che tutta questa apertura deve avere in effetti alcuni limiti, e alla nuove direttive ha allegato una circolare che istruisce il personale a prendere provvedimenti per evitare che i locali si trasformino in bivacchi, bagni pubblici e catalizzatori di criminalità. Quali provvedimenti? Ciò dipende dalla discrezione dei commessi, quella stessa discrezione che è stata usata nel peggiore dei modi nel caso di Philadelphia. Il problema, nella sostanza, è sempre quello della natura di una catena come Starbucks, che ha dettato il passo nella creazione di un modello sempre più imitato da altre catene, che iniziano offrendo il wi-fi gratuito per invitare la clientela a rimanere e poi si trovano costretti, per coerenza con i proclamati valori dell’inclusività e dell’apertura, a offrire gratuitamente anche altri servizi. Il manager di un’agenzia di consulenza per la ristorazione dice che la “situazione di Starbucks ha aperto un problema enorme”, perché “di solito sono i singoli ristoranti a decidere che politica adottare”, mentre la catena di Seattle sta impostando una linea comune per tutte le caffetterie. E paga già il prezzo della sua “apertura”.

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