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“You do you” è il manifesto generazionale del narcisismo di chi si crede libero dal male

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New York. Colson Whitehead ha scritto sul magazine del New York Times un  memorabile articolo sulla tautologica espressione “you do you”, sintesi del narcisismo di una generazione e schermo per deviare preventivamente qualunque possibile critica. “You do you” signifca sii te stesso, e ha una doppia intonazione, insieme esortativa e descrittiva, è tanto un auspicio quanto un dato di fatto. Tu sei tu, ti comporti da te stesso, e un po’ non potrebbe essere altrimenti, un po’ nessuno dovrebbe permettersi mai di indicare a un altro “you” qual è il comportamento adeguato per realizzare la sua natura più intima. Sei tu il capo di te stesso, non prendere ordini da nessun altro. L’espressione è anche spuntata a margine dell’intervista che Obama ha dato a BuzzFeed, nella parte il cui il presidente degli Stati Uniti, commander in chief dell’esercito più potente della storia umana, leader del mondo libero, vertice della più vasta economia globale, armeggia con un selfie stick. Whitehead esplora le contraddizioni linguistico-semantiche dell’espressione, mettendole in relazione ad altre tautologie che sono in figure dell’ineluttabilità e giudizio definitivo di condanna per chi non corrisponde all’immagine dello “you” comunemente accettata. “Haters gonna hate”, ad esempio. L’odiatore odierà per sempre, nulla potrà cambiarlo, non c’è un percorso di redenzione praticabile per questo abitante di un piano antropologico inferiore, quindi all’hater non si applica l’espressione “you do you”: “Portata all’estremo è una giustificazione per tutti i cattivi della terra: l’invasine dell’Ucraina è Putin che agisce da Putin, le ambizioni nucleari dell’Iran è Khamenei che fa Khamenei”. Ciascuno fa ciò che la sua natura gli prescrive o gli permette di fare, e se la sua natura è malvagia altrettanto malvagie saranno le azioni, non ha alcun senso dire “you do you” ad al Baghdadi. La scuola filosofica del “you do you” non propone una disinteressata valorizzazione dell’identità individuale in quanto tale, ma vale soltanto per quelle identità specifiche che sono già state selezionate all’ingresso dal bouncer della correttezza ideologica. Taylor Swift può dire “haters gonna hate” perché è stata già classificata fra le forze del bene, si è autoassolta e la giuria delle belle coscienze ha confermato la sentenza, è libera dal male, dunque nella posizione di dare giudizi sull’umanità inferiore, quella a cui nessuno direbbe mai “you do you” ma attibuirebbe soltanto tautologici – cioè definitivi – pronunciamenti di dannazione eterna. “You do you”, sii te stesso, fregatene di quello che dicono gli altri, a patto che gli altri ti abbiano giù preselezionato per far parte del club dei giusti, altrimenti finisci mostrificato senza appello. Chi odia non può che odiare, chi è bellicoso non può che guerreggiare, tutti gli altri “you do you.
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