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Nerissimo Cav. Quando l'antiberlusconismo seduceva la sinistra in cerca d'autore

Andrea Minuz

"Ma come fa a vincere? Non conosco nessuno che l'abbia votato!". Trent’anni dopo la discesa in campo di Silvio Berlusconi, un campionario dei tic e delle frustrazioni che colpirono una gran parte del mondo intellettuale


Pubblichiamo due capitoli tratti dal nuovo libro di Andrea Minuz, “C’eravamo tanto odiati. Breve storia dell’antiberlusconismo”, il Mulino, 2024, 11 euro, 125 pp., in libreria dal 15 marzo. 

Eva bene, confessiamolo subito. Sono qui che guardo un video su Instagram con Berlusconi e quasi mi commuovo (l’età? la nostalgia? una crisi esistenziale?). In piedi, sul palco del Teatro Manzoni di Milano, B. canta a squarciagola l’inno di Forza Italia, quello del ’94, il primo, oggettivamente il più bello. Accompagna la musica con le braccia, orchestra il coro del pubblico, si emoziona al crescendo del ritornello “e abbiamo tuuutti un fuoco dentro al cuoooreee”. Berlusconi è stanco, affaticato, naturalmente molto truccato.  È un video del 23 settembre del 2022, giorno di chiusura della campagna elettorale. B. ha quell’aria incredula di chi sopravvive alla propria leggenda. Come nell’ultimo concerto di Frank Sinatra al Marriott Hotel di Palm Desert, come Elvis alle Hawaii. Sembra un meme vivente, “tecnicamente immortale”, come diceva il Professor Umberto Scapagnini. 


È una scena che abbiamo amato prendere per il culo chissà quante volte, ma che ora ha qualcosa di epico, solenne, struggente. E poi, ascoltato oggi, l’inno di Forza Italia si tira dietro tutta un’innocenza pop, la nostalgia dei pezzi di Baglioni, un flusso di malinconie, ricordi, magliette fine, e quel coro del ritornello, un po’ “Nabucco”, un po’ “Live Aid”: Bob Dylan, Michael Jackson, Tina Turner che intonano insieme “e Fooorza Italia… We are the childreeen…”. Nei commenti al video, tra fan in deliquio e berluscones inconsolabili, c’è chi scrive, “da persona di sinistra non posso che ammirare l’enorme influenza che ha portato Berlusconi, addio Cavaliere”, seguito da emoji a cuoricino. 

Sono passati trent’anni esatti dalla prima volta che B. ha cantato l’inno di Forza Italia in pubblico. E di cose ne sono successe parecchie. Ho iniziato a scrivere questo libro più o meno quando Berlusconi tornava in Senato dopo lungo esilio (12 ottobre 2022). L’idea di raccontare quegli anni attraverso le magnifiche e progressive sorti dell’antiberlusconismo mi sembrava ancora attuale. Poi, subito dopo la morte, tra strascichi e polemiche per i funerali di Stato, tutto era già stato archiviato, chiuso, sigillato in un lontano passato, come ormai capita con qualsiasi cosa. Ero alle prese con un libro di storia. La mattina del 12 giugno 2023 mi trovavo all’Università. Con gli studenti parlammo un po’ della scomparsa di Berlusconi. La notizia circolava da poco. Ecco, ora partiranno gli strali, l’indignazione per quel che ha fatto all’Italia, la vergogna, la rovina del paese, tutte quelle cose lì, pensavo. E invece no. Erano proprio pacificati. Parlavano con serenità. Non avevano conti in sospeso con Berlusconi. Alcuni sembravano persino scossi, dispiaciuti. Per loro era solo un pezzo del vecchio mondo che se ne andava. Il mondo dei loro genitori.


E noi invece come eravamo? “Be’, un po’ stupidi”, ammette Filippo Ceccarelli, rievocando su Repubblica i trent’anni esatti della discesa in campo (26 gennaio 1994). “Tutti o quasi non avevamo capito nulla. Trascorso il tempo di una generazione lo si può riconoscere perfino con serenità, se non ora quando?”.  E così, se non in modo davvero tangenziale, qui non si parlerà di conflitto di interessi, scontri con la magistratura, riforme, processi, ma dell’antiberlusconismo come canone culturale, collante sociale, disturbo caratteriale del “ceto medio riflessivo” (diceva un grande antiberlusconiano come lo storico Paul Ginsborg). L’antiberlusconismo come psicosi collettiva. Una magnifica start-up, anche. L’unica che abbia mai funzionato da noi. Laboratorio di sublime italianità, veicolo di carriere, vetrina per scrittori, registi, giornalisti, opinionisti, martiri, chiunque fosse in cerca di visibilità o contenuti militanti per le proprie imprese, da Travaglio alle escort. C’erano i professionisti dell’antiberlusconismo e i dilettanti. Centralità, egemonia, piccole “casematte”.


Travolto da uno studio compulsivo, spinto all’accumulo nevrotico e inesauribile di feticci dell’antiberlusconismo, ho recuperato “Bunga Bunga 3D”, “il film sulla vita da escort di Nadia Macrì”, che all’epoca mi ero perso. Frase di lancio: “Nadia Macrì confessa…i palazzi tremano”. Tra le prime a parlare dei festini di Arcore, Nadia Macrì fu portata in trionfo nei talkshow per un po’, svelando dettagli succulenti dei suoi rapporti con B. Due, a quanto pare, uno in Sardegna, l’altro a Arcore, totale diecimila euro, più “altri regalini”. Al culmine della fama, la svolta cinematografica: non un porno qualsiasi, ma “un’inchiesta sul potere”. “Un racconto in chiave hard di quegli anni vissuti così intensamente”, un’“operazione di denuncia” che avrebbe “fatto tremare i palazzi”. Classificato come “instant porn”, “Bunga Bunga 3D” fu la principale attrazione dell’Expo Erotik 2011, girando poi per festival e fiere del settore. Nella locandina c’è lei, Nadia Macrì, in ginocchio, in un salone misterioso che dovrebbe suggerire un’idea minacciosa di “potere”, ma che ricorda più che altro la stanza rossa di “Twin Peaks”, circondata da figure incappucciate tipo orgia di “Eyes Wide Shut”, o “Il caso Scafroglia” di Guzzanti. Il film non è granché. 


Però, ecco, no. Non è un’apologia di Berlusconi (questo libro, intendo). Ce ne sono già tante. Casomai un flusso ingarbugliato di ricordi. Una storia minore, in un’ottica magari parziale e miope, di appelli, marce, adunate, lagne, girotondi, arroccamenti, domande di Repubblica, conversazioni a tavola sempre uguali, dimenticando più o meno volutamente molte cose. Un revival di una stagione che annunciava continuamente la fine di tutto, della democrazia, della libertà di stampa, del sociale, della cultura, della solidarietà, del buon gusto. Una stagione che ha inciso profondamente su questo paese, non solo sul modo di intendere la politica. E siccome siamo in Italia, tutto poi diventava buffo, divertente, magari feroce, ma oggettivamente comico.

Berlusconi fu Presidente del Consiglio quattro volte (otto mesi tra il 1994 e il 1995; poi due volte di seguito dal 2001 al 2005; poi nel 2006, un anno soltanto, per l’ultima volta dal 2008 al 2011). La democrazia, quindi, non aveva smesso di funzionare. Però anche se B. perdeva le elezioni il “ventennio berlusconiano” (nove anni al governo, undici tra opposizione e larghe intese) non cessava di produrre i suoi effetti. La sua scomparsa, si sa, ha lasciato molti orfani. “La tristezza non è solo un sentimento del popolo di Berlusconi”, dice Michele Santoro, “la sento anche io che l’ho sempre contrastato”. E ricordava con la lacrimuccia l’indimenticabile puntata di “Servizio Pubblico” con la spolverata di poltrona di B., dovendo lui sedersi dopo Travaglio: “Durante uno stacco pubblicitario Silvio mi fermò, mi tirò per la giacca e mi disse: ‘Michele, ma come ci stiamo divertendo?!’” Già, quanto ci stavamo divertendo?
               


* * *


Nel ’94 avevo vent’anni, ero iscritto all’Università, leggevo le pagine culturali di Repubblica, vedevo film del circuito arthouse, possibilmente in v.o., senza popcorn, le barzellette non mi facevano ridere, avevo chiuso la tv nell’armadio, come un mostro cattivo. Ero fatalmente destinato all’antiberlusconismo. Fu il mio un antiberlusconismo molto pigro, scettico, poco sentito e non durò granché. Perché anche se il messaggio posticcio, il partito prefabbricato, gli slogan, il linguaggio di gomma, il sorriso di B. sui cartelloni e il “nuovo miracolo italiano” puzzavano in modo plateale di fregatura da televendita, ancora di più mi insospettivano l’odio, la repulsione, il rifiuto radicale, le reazioni da profanazione religiosa che Berlusconi innescava negli oppositori. Una cosa che dopo un po’ faceva venire una gran voglia di tifare per lui, se non altro per dispetto.


A vent’anni si può essere molto scemi e io non facevo eccezione, ma la diffidenza verso l’antiberlusconismo mi teneva a una minima distanza di sicurezza. Un piccolo corridoio umanitario per ritirarsi in un angoletto. Imparando da lì a sospettare delle “teorie troppo dritte”, come le chiama Isaiah Berlin (che all’epoca non sapevo chi fosse), a diffidare dei “guaritori dell’umanità”, i più pericolosi di tutti. Mi sarei trovato a mio agio solo con scrittori, intellettuali, artisti che tengono in gran conto i difetti degli esseri umani. Cauti, diffidenti, sospettosi verso la perfezione. Tirai fuori dall’armadio la tv.  Il fatto è che c’era qualcosa che non andava in quelli che dicevano di avere ragione , anche quando avevano ragione. Il “conflitto di interessi” era un problema, però i primi a non crederci più di tanto sembravano proprio gli oppositori di Berlusconi. Appassionava di più “la catastrofe estetica del berlusconismo”, come diceva Massimo Cacciari. Ma come la argini una “catastrofe estetica”? Soprattutto c’era qualcosa che non andava in tutto quel fascismo, regime, emergenza democratica. Una lagna a cadenza settimanale. Parole vuote, ritornelli, filastrocche, tic, come il mi-consenta di B. (ho perso il conto delle “emergenze democratiche”, ne ho scampate più io a vent’anni che mio nonno sotto il fascismo e la guerra). Non mi inquietava lo “sdoganamento” di Fini, quando all’inaugurazione di un ipermercato, nel trailer della discesa in campo, Berlusconi spiegò che fosse stato a Roma per votare il sindaco tra Fini e Rutelli avrebbe scelto “senza un secondo di esitazione” il primo. Forse per questioni anagrafiche non sentivo la minaccia fascista, il fatidico rigurgito, che ho sempre abbinato alla digestione anziché alle “destre”, ormai sempre al plurale, come “le mafie”. Era passato mezzo secolo, era caduto il Muro, sembrava anche ovvio aspirare ad avere una destra “normale” (da lì ad avercela è un altro conto, ma ripensandoci, che colpo di genio: sdoganare i post-fascisti a Bologna, cuore dell’Emilia rossa e delle Coop, dentro uno shopping mall all’americana, le odiate cattedrali del consumo!). 


Negli anni Ottanta l’antifascismo languiva. Fino al 1994 il 25 aprile era una festa comandata. Ma Berlusconi l’aveva riportata agli antichi splendori. Antifascisti full time. Da lì in poi un’impennata permanente. Oggi tutti “antifa” nella bio su Twitter. La destra magari era impresentabile, ma per chi aveva vent’anni alla fine dei Novanta la sinistra era vecchia. I professori all’Università toccavano solo le corde della nostalgia. Nostalgia per un radioso passato (il loro) e tetro avvilimento per la “crisi del presente” (il nostro). Il racconto era più o meno questo: prima c’erano stati l’impegno, il neorealismo, Pasolini, le piazze piene, Berlinguer, la passione collettiva, l’Italia “autentica”, un grande, sinfonico e armonico “noi”. Ora non restava nulla. Vivevamo nelle macerie. Travolti dall’istupidimento televisivo, in uno scenario post-apocalittico, reclusi in un micragnoso, egoistico, subdolo “io”. Anche volendo non avremmo potuto combinare granché. La via della gloria letteraria o artistica era senz’altro sbarrata. Tutto era già stato fatto. Gli anni Ottanta avevano spazzato via quel magnifico “noi” (cioè “loro”), e ora eccoci qui. Però avevamo almeno qualcuno da odiare. 

L’antiberlusconismo sapeva essere seducente anche così. Faceva sentire parte di qualcosa, anche se non c’era più niente. Dissidenti del presente, dalla parte giusta delle cose. Essere di sinistra era complicato. Pieno di contraddizioni, nodi irrisolti, svilimenti. Proclamarsi antiberlusconiani garantiva invece un posizionamento limpido. Scuole, licei, università, si occupavano sempre contro Berlusconi, anche se al governo c’era Prodi. E poi il problema vero. Impossibile rimorchiare senza esecrare la sciagurata avventura politica di B., le gravi conseguenze che avrebbe avuto sul nostro assetto democratico. Dire “ho votato Forza Italia” apriva una voragine da cui non si sarebbe più usciti. Come in quella puntata di “Boris” in cui Caterina Guzzanti confessa di aver sempre votato per Berlusconi (“ma fammi capire, l’hai votato l’ultima volta, che so come una cosa di protesta?”, “No, no, io l’ho votato sempre”).


Le nostre Katie Morosky non volevano neanche saperne di antiberlusconiani tiepidi e perplessi, avrebbero fatto eccezione solo per i pochissimi Hubbel Gardiner a forma di Robert Redford. Queste cose vanno sempre così: il comunista Sartre aveva torto su tutto, e il suo rivale Aron, liberal-conservatore, aveva ragione. Però non se lo filava nessuno. Sartre era fotografato come una star, seduceva uomini, donne, adolescenti, Aron non aveva un Café de Flore, non era proprio fotogenico, stava curvo sui libri a casa sua, aveva l’aria di uno che non veniva invitato alle feste. Fu così che una generazione cresciuta davanti a “I Puffi”, “Lady Oscar”, “Ok il prezzo è giusto” e “I bellissimi di Rete4”, si rovesciò nelle piazze, nelle manifestazioni, nelle giornate anti-B. in un consesso quindi anche molto edipico. La mattina alle manifestazioni contro “la Moratti” o “la Gelmini”, la sera a vedere “Dawson’s Creek” su Italia Uno. L’antiberlusconismo sfasciava le famiglie. I Guzzanti, per esempio: Paolo in “Forza Italia”, Sabina barricadera. “Prendersela con lui significa, per molti, prendersela anche con sé stessi”, scriveva Gad Lerner in occasione dei funerali di Raimondo Vianello, celebrato ormai come icona laica del berlusconismo, “e questo gli dà un’immensa forza, essendo lui l’accompagnatore di una mutazione culturale della penisola”. 


La televisione era la causa di questa mutazione culturale. Lo dicevano tutti. Specie quelli che non la vedevano. La televisione andava disprezzata tutta, in quanto televisione. Ambra, Fiorello (quello del Karaoke), Maria de Filippi, che con la sua factory di tamarri sfornava a getto continuo prove lampanti di questa mutazione culturale, furono i primi simboli del berlusconismo da odiare. Fiorello divenne un’icona nazional-popolare poco dopo. Maria De Filippi ci mise un po’ di più ma da tempo è nel pantheon progressista, anche grazie alla nebulosa di fluidità che la circonda. Quanto a Ambra, ha scontato il suo endorsement per Berlusconi in una memorabile puntata di Non è la Rai prestando servizio in età adulta come testimonial Cgil al concertone di San Giovanni. La più longeva. Al momento, sei edizioni di fila. Un record. Peggio che fare il militare poverina.
 

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