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il Reportage

Aspettando il funerale di Elisabetta, Londra piange sé stessa e il passato che non c'è più

michele masneri

Tra folle, programmi a reti unificate, prezzi alle stelle, nostalgie del passato e timori per il  futuro. Commozione vera e molta retorica. Cronaca da Londra 

Gli elicotteri sorvolano istericamente Londra mentre la Bbc a ciclo continuo trasmette ormai le frattaglie delle frattaglie sulla regina, e del suo “lay in state”, della veglia funebre. Lei è lì,  morta ormai da quasi dieci giorni, e non si sa più cosa mostrare (ieri notte, specialone sui cavalli; un vecchio cowboy californiano, che aveva fatto il fattore dalla regina, e lì racconti: ah, quando cavalcava con Reagan…). Ma lo spettacolo va avanti. 

 

La “queue”, la fila, intanto è ormai argomento di conversazione, la queue, la queue, fin dove arriva? Cinque miglia, sei, no, di più. Davanti alla queue paramedici (“ha mangiato qualcosa?”), Samaritans (“siamo qui per aiutarti”), “faith team”, con l’arcivescovo di Canterbury pronto a soccorrere le anime, in giubbetto catarifrangente;  ma parallela dall’altra parte scorre un’altra processione, quella della birra al pub, Hall&Woodhouse, di fronte a Westminster, con fish and chips e pinte e facce non troppo corrucciate e forse business as usual.  “Niente fotografie finché non avete sceso le scale” intima alla folla in marcia uno delle centinaia di cops a guardia del palazzo. Una visuale segretissima? “No, ma se tutti fotografano non guardano a terra e qualcuno cascherà giù”. Una variazione al classico “mind the gap” dell’identità britannica ammaccata che esce dalla Brexit e dalla regal dipartita. Ma l’enorme folla che non si placa, che è venuta a fare? A celebrare la regina, sì, ok, ma poi? E’ raccoglimento sincero, è paura del futuro, è funerale della stessa monarchia? 

 

Scanalando in tv, intanto, nel monolocale sovrapprezzo affittato duramente (i prezzi sono impazziti a Londra, un impazzimento su un impazzimento pregresso, quarto piano senza ascensore di moquette fetide, quattrocento pound al giorno), “si sa che Elisabetta l’unica volta che fu vista in lacrime fu quando il cattivo governo nel 1997 le tolse il suo panfilo reale, lei e la sorella piansero per quello yacht che aveva rappresentato tanto per loro” dice un commentatore affranto (e in California, nel 1983, in una disastrosa visita di stato, troppe onde, acquazzoni, alluvioni, e alla cena di stato coi Reagan a San Francisco: “Sapevo che ci avevate copiato tante cose, ma non il maltempo”); il Britannia adesso è la maggiore attrazione di Scozia, tirato a lucido, affittabile per eventi e comunioni. Altro declino. 

 

“Nei prossimi giorni vedrete che la folla supererà quella per la morte di Diana”, mi dice Martyn Lewis anzi Sir Martyn Lewis che se ne intende: leggenda televisiva Bbc, colui che dette l’annuncio della morte di Diana il 31 agosto di venticinque anni fa, e poi cavalcò le 6 ore di diretta più lunghe della storia inglese. “All’una di notte fui svegliato da mia figlia. Mi passò al telefono il capo che mi disse che la principessa del Galles era stata ferita in un gravissimo incidente a Parigi e che dovevo andare in onda con due bollettini. Stava arrivando un taxi, quindi ho indossato giacca e cravatta. Vivevo a circa otto minuti dagli studi. Dopo il bollettino il caporedattore mi dice: ‘Perché non torni a casa, che domani riprendiamo alle 7 del mattino?’. Ho dormito per circa 40 minuti quando mia figlia di nuovo mi ha svegliato. Ho capito subito cosa doveva essere”. Sir Martyn a un certo punto ebbe la voce rotta di emozione, cosa che da buon inglese lo imbarazza ancora. Ma questi indumenti neri li avete sempre pronti? “Sì, sempre appesi, in camerino”.

 

Ma adesso forse Diana lassù nel suo paradiso pieno di borse firmate e rockstar se la starà ridendo: Carlo, re Carlo, non parte affatto col piede giusto, in un defatigante viaggio per il regno con la sua vecchia amante poi diventata “regina consorte”; esiste qualcosa di meno sexy e regale di due nonni  vedovi e orfani e pieni evidentemente di ambizioni e risentimento che prendono servizio dopo uno stage di cinquant’anni? (nemmeno nel più distopico call center)

 

Poi, ecco gli sbrocchi per gli inchiostri, con lo sketch di Carlo che prima si fa sgombrare la scrivania da un valletto, poi si sporca, con Camilla che fa una faccia come per dire annamo bene,  vuoi vedere che per davvero lui è “unfit” come diceva la vecchia principessa del popolo? “Ma scherza?”, mi dice Martyn Lewis, anzi Sir Martyn, “Carlo è bravissimo, preparatissimo, e poi non sottovalutiamo l’effetto-corona, quando ti trovi una corona in testa cambia tutto”.  Segnaliamo intanto sommessamente, come dice la Meloni, che Draghi è andato dall’ambasciatore inglese a Roma e ha lasciato una pagina di condoglianze scritte con bellissima grafia sul libro dei cordogli, senza schizzi di inchiostro, pagina prontamente messa online. 


“Carlo è un gran paradosso. E’ il più preparato, il più colto della famiglia, il suo primo discorso è stato perfetto, sa che dovrà essere un re imparziale,  ma emotivamente non si sa se funzionerà. Ha l’aria di essere uno nervoso, viziato, lamentoso, tutte cose che sua madre non era. La qualità maggiore che aveva Elisabetta era di non lamentarsi mai, mai un lamento in settant’anni”, mi dice Anna Pasternak, nipote dello scrittore del “Dottor Zivago”, e scrittrice occasionalmente di cose reali. Be’ ma allora sarà il re perfetto per quest’epoca lamentosa che vuole soprattutto “complain” e “explain” a manetta. Ha una collezione di traumi e malanni e tic che qualunque influencer se li sogna. “Ma nessuno vuole il lamento di un settantacinquenne bianco privilegiato”, dice giustamente la Pasternak. Insomma, Carlo per funzionare in versione influencer dovrebbe essere una donna, nera, giovane, magari non binaria. Tutto sbagliato, tutto da rifare. “Ma per ora viviamo una specie di periodo di garanzia. Gli inglesi stanno a guardare, non dicono niente, una specie di luna di miele col nuovo re. Che però finirà presto”. 

 

In tv intanto, nel monolocale sovrapprezzo,  su un altro canale, va avanti la storia del Britannia. Sembra che gli sceneggiatori di “The Crown” abbiano fatto un colpo di stato. Intervistati vecchi marinai, mozzi, cuochi di bordo, non si butta via niente. Ma Andrew Morton, appena uscito con una provvidenziale biografia della regina, corteggiatissimo dai cronisti in questi giorni, ma sta in campagna, 100 euro di taxi, mortacci sua, e poi non si concede, scrive invece che lei piangeva spesso e volentieri, mah, insomma, non si capisce. Era anche spiritosa, forse è quello il lato che viene meno fuori dalle varie finzioni filmiche che hanno raccontato la famiglia.  

 

E lì, ricordi, Elisabetta che fa “splendide imitazioni dei leader stranieri” (chissà dopo la visita di Cossiga nel 1992, visibile su YouTube); e un giorno deve presenziare al Garrick Club, uno dei più prestigiosi di Londra, di cui sir Martyn è membro così come Carlo e il principe Filippo (si visitò ai tempi col compianto Paolo Filo della Torre): e lì la regina, dovendo partecipare a una festa del marito, non poteva però entrare, essendo quel consesso chiuso  alle femmine, e alla fine, racconta sir Martyn, si trovò una soluzione: venne fatta “Honorary man” per un giorno. 

 


Il fatto è che di questa famigliona disfunzionale sembra che sappiamo già tutto, troppo, ma forse non sappiamo nulla. Carlo l’abbiamo ascoltato quando voleva fare il tampax di Camilla (tema che forse verrà utile oggi che impazza la detassazione degli assorbenti) e il resto l’abbiamo visto nelle fiction. I due piani si mischiano, non si capisce più nulla. Un’altra entità che è diversa da come crediamo è Wallis Simpson, “that woman”, la migliore nemica della regina, quella che causò l’abdicazione di re Edoardo VIII facendo finire il timido Giorgio VI inopinatamente sul trono. “Elisabetta alla fine le pagava i conti, organizzò il funerale, e Wallis era un’altra che mai si lamentò. E’ stata il perfetto capro espiatorio, e in un certo senso vittima del marito, come del resto Camilla: nemmeno lei ha mai voluto sposarsi, stava così bene da amante e in campagna, ma è stato Carlo a dire che lei era ‘non negoziabile’”, dice Pasternak. “Come la duchessa di Windsor: anche lei mica si voleva sposare”.  Boh, chissà come sarà veramente. Anche la regina madre che in “The Crown” piange e si lamenta accaventiquattro era meno musona di come pensiamo. “Aveva questi due valletti molto gay e li fece chiamare per i suoi drink, telefonando al maggiordomo: ‘puoi dire a quelle due queen di sotto che qui c’è un’altra queen che vuole il suo gin and tonic?’”, racconta divertito sir Martyn, che è anche chairman del Queen’s Award for Voluntary Service, grande premio per il regale volontariato, per cui è stato fatto baronetto. “Non baronetto, commander”, mi corregge. “CBE”, “Si-bi-i”. Dev’essere più importante. Cavalierato comunque due volte, una dalla regina, una dal principe William, e mostra le foto con tutti e due, dietro la scrivania. 


“Ma la famiglia reale” – dice – è il soggetto perfetto per una fiction, perché loro per definizione non commentano mai, dunque uno potenzialmente può mettere in scena quello che vuole, ma non si saprà mai se è andata così o meno”, dice Sir Martyn, baronetto o commander.Insomma, qualche volta commentano sì, come sa bene la Pasternak che è stata imbruttita da William e Catherine per un pezzo apparso su Tatler, una delle poche volte che il palazzo ha reagito a un articolo, dove lei aveva scritto della magrezza e della sostanziale insipidezza di Kate. “Catherine è perfetta, non mostra emozioni, nessuno sa come sia veramente, ha un completo controllo dei sentimenti che è essenziale per sopravvivere nella famiglia reale”, mi dice oggi Pasternak. E i Middleton come sono? Questi produttori di gadget per festicciole, questi allevatori incredibili non di cavalli ma di progenie destinata a sposare la monarchia. Non sbagliano un colpo: non solo Kate coi suoi inchini robotizzati ma anche Pippa e il fratello che sembra più Windsor di un Windsor. “Hanno questo culto della famiglia reale tipico della borghesia. Sono perfetti per questi tempi, molto meglio dei vecchi nobili, eccentrici e meno controllabili”, mi dice perfidamente Pasternak. 


Quindi, tutto un rimpianto. Fatturando però. Tutti gli uffici pubblici sono chiusi in questi giorni ma i ristoranti sono aperti, apertissimi.  “Rest In Peace” c’è scritto al posto del menu sulla lavagnetta dello Horse and Guardsman ma il burger base viene 14,50. Tutte le librerie espongono volumi sulla regina. Le agenzie immobiliari alternano il faccione regale alle inserzioni (tre camere a Chelsea, 3 milioni di sterline). 


Intanto la processione va avanti. Dei ragazzotti in bici urlano “I don’t give a fuck”, è l’unico frisson in questo momento anche un po’ stucchevole (in nero anche gli anchor dei tg stranieri, è chiaro che il tailleurino nero è il pezzo dell’autunno, presto nelle vetrine di Zara). E a chi dice; basta, son passati dieci giorni, fatela morire in pace, non viene in mente che questo grande business  di orde che mangeranno e berranno e compreranno cioccolatini forse è l’estremo dono che la regina vuol fare alla sua Inghilterra.


Certo l’organizzazione è incredibile. La tv mostra i percorsi della folla, “siamo qui da dodici ore”, dicono masse entusiaste. C’è chi viene dall’America. C’è un “queue-tracker” che conta le ore di coda, e mostra il percorso dall’altro, stilizzato, disegno che forse diventerà celebre come quello della metropolitana inglese.  “Anche per la morte di Giorgio VI ci furono 350 mila persone”, ricorda un anchor. “Certo, erano vestiti diversi”, dice, in nero come tutti, mostrando e intervistando dei trucidi con marsupio, “ma lo spirito è venire come si vuole”, sospira, indicando di pensare proprio l’opposto. Ah, i bei tempi. 

 

La queue è un grande monumento alla capacità di stare in fila degli inglesi; in Italia non sarebbe di certo possibile, sarebbero arrivati quelli coi tesserini, con le autocertificazioni, i finti invalidi. Sospeso per lutto anche lo sciopero generale di giovedì (anche quello, difficile in Italia). “They came, they waited, they queued”, sono venuti, hanno aspettato, hanno fatto la coda, dice un altro mezzobusto, che vuol essere solenne un po’ alla Giulio Cesare, veni-vidi-vici, ma suona delirante. La Bbc coi suoi reportage dalla veglia funebre ossessivamente alternati a previsioni del tempo sembra un Superquark dell’Inghilterra per i posteri. Carlo, come un Marchionne reale, vuole licenziare, ridurre, trasformare Balmoral e Buckingham Palace in musei, insomma comunque vada, anche se il real carrozzone resisterà, nulla sarà più come prima. 


Di notte le truppe fanno le prove per il giorno dopo, mentre per il funerale di lunedì si attendono i potenti – non ci sarà Obama, non ci sarà Zelensky, “a causa del conflitto”, precisano dal palazzo. Arriverà però  Juan Carlos, l’ex re che ammazza gli elefanti e le dichiarazioni dei redditi, ma “era un grande amico della Regina, e del resto ha senso, così come che ci saranno il principe Andrea e pure i Sussex”, cioè il principe forse pedofilo e i due sfessati californiani. “I funerali sono un momento di riconciliazione famigliare”, dice sir Martyn,  “ma certo, il body language di quella passeggiata a quattro rimane incredibile”, riferendosi alla tragica parata di quello che un tempo erano i Fab Four, William e Kate e poi Harry e Meghan, qui riuniti a favore di telecamera, ma rigidi come manichini, e mai uno sguardo soprattutto tra le due eredi, due mondi a confronto, da una parte la borghese programmata per essere regina e dall’altra la figlia dell’insegnante di yoga californiana che forse ha fatto il passo più lungo della gamba o forse ha preso la fregatura pure lei. 


Sir Martyn continua a mostrarmi le foto dietro la scrivania. “Questo sono io 70 anni fa in braccio a mia madre, guardando l’incoronazione di Elisabetta. Qui sono con Carlo in Galles. Il segreto della monarchia è questo, che tu pensi di conoscerli, anche se li hai visti due o tre volte in vita tua, fanno parte della tua famiglia”. Anche le folle forse avranno una vecchia foto con Elisabetta: 70 anni di viaggi forsennati su e giù per il paese lo rendono statisticamente probabile. Ma adesso ognuno di loro ha un ricordo che diventa preziosissimo per sé e per il sentimento, proprio e di nazione. La commozione è vera. “Come nazione avevamo bisogno di un momento di unità nazionale ed eccolo: dopo Brexit, dopo i contrasti sui vaccini, siamo un paese come  gli Stati Uniti, molto diviso. Elisabetta rappresentava proprio questo, unità”, dice Pasternak. 


Intanto la tv ossessivamente ramazza oltre il fondo del barile, oltre il surreale. Ginny Oakley Pope, presidentessa della “associazione della cavalcata all’amazzone” (sic), dice solennemente che Elisabetta  è stata fondamentale per l’equitazione all’amazzone, “ha reso cavalcare all’amazzone di nuovo di moda”, e questa roba va in onda ormai da giorni senza ironia, ma è una specie di mantra che serve a placare gli inglesi e a ricordare che tutto un tempo era così bello, così semplice,  come nelle nostre famiglie normali quando, compianto il defunto, si guardano le foto della vecchia casa al mare poi venduta. Sylvia Stanyer, regal istruttrice di cavalcata all’amazzone, ricorda il regal cavallo di nome Burmese, “Burmese – pausa - conosceva bene la regina. E la regina – pausa - conosceva bene Burmese”. Chissà cosa si inventeranno di qui a lunedì.

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