Il Foglio del weekend

A Roma, a spasso con Lucifero

Saverio Raimondo

Pochi in giro nelle ore più calde, e tutti derelitti. Le labbra secche, la schiena allo stato liquido e  la voglia di leccare i gradini di Trinità dei Monti per reintegrare i sali minerali. Il sesso, un disastro anche solo da immaginare 

Giovedì 12 agosto ho bevuto poca acqua e sono uscito nelle ore più calde. L’ho fatto per vedere l’effetto che fa e riferirlo ai lettori – che siete voi, lo specifico per i più ottusi. Tutto questo in una Roma da bollino rosso – temperatura prevista 38 gradi, percepita Siracusa – durante la settimana più calda dell’anno a causa dell’anticiclone africano denominato Lucifero. E all’indomani del nuovo allarmante rapporto dell’Onu sul clima, che prefigura nei prossimi anni un aumento della frequenza e dell’intensità di fenomeni meteorologici disastrosi come “ondate di grande caldo” e temperature sempre più alte, il tutto “inequivocabilmente” causato dalle attività umane: 3.949 pagine da stampare per sventolarsi invece che accendere l’aria condizionata.

 

A mezzogiorno in punto, con in corpo appena un paio di bicchieri d’acqua bevuti al risveglio quattro ore prima, sono sceso in strada e ho iniziato a camminare senza una meta precisa, semplicemente per guardarmi attorno e monitorare via via il mio stato psicofisico. Non che io sia un anziano, un bambino o un cane – cioè una delle tre categorie fragili a cui il caldo potrebbe essere fatale; ma essendo io un immaturo che si veste da vecchio e con la tendenza a guaire e uggiolare, sono un valido compromesso. Inoltre, parafrasando una celebre canzone, odio l’estate; ma nel mio caso non perché abbia “creato il nostro amore che è passato / che il cuore mio vorrebbe cancellare”, ma semplicemente perché odio sia il caldo sia l’aria condizionata, quindi d’estate sono particolarmente afflitto e inaccontentabile. Aggiungeteci che io ho sempre caldo, anche d’inverno, non solo perché fa sempre caldo anche d’inverno, ma perché la mia temperatura corporea è normalmente superiore ai 37 gradi (e non immaginate quanti problemi io abbia avuto quest’anno: ho letto che Monica Cirinnà ritiene che la verifica del green pass per le persone trans sia “umiliante”, ma sapesse per me quella del body scanner! E non conosco metodi veloci ed efficaci di raffreddamento corporeo, a parte il dissanguamento, che però macchia un casino). Insomma, sono il soggetto ideale da mandare in giro a fare un reportage sul caldo per farsi quattro risate.

 

Per l’occasione ho indossato dei bermuda leggeri, una maglietta a maniche corte e ai piedi un paio di espadrillas: non sono solito andare in giro conciato così, specie in città (sono un convinto sostenitore di un certo contegno borghese, e più in generale della dignità umana); ma data la calura che avrei dovuto affrontare ho preferito vestirmi in modo adeguato, sdrammatizzando l’effetto agghiacciante delle mia gambette corte e delle mie braccia secche con un ironico look da marinaretto. Niente occhiali da sole né cappellino di paglia: non volevo in alcun modo edulcorare l’esperienza, sarebbe stato come se Hunter S. Thompson prima di strafarsi di Lsd per scrivere i suoi reportage da Las Vegas si fosse preso un protettivo per lo stomaco.

 

Abito nel quartiere Trieste, “l’Upper East Side de noantri”, e ho iniziato a dirigermi verso Villa Ada, polmone verde della zona. In giro poche anime (portieri, donne delle pulizie o badanti, gente con magre buste della spesa) e tanti parcheggi liberi. Il sole è caldo, lo senti subito sulla pelle, e il cielo è bianco di umidità; ma l’impresa di bighellonare in giro fino alle cinque del pomeriggio mi sembra fattibile. Seduta sul gradino esterno di un negozio chiuso per ferie – a parte i bar, gli altri esercizi commerciali lo sono quasi tutti – c’è una giovane coppia; improvvisamente lei grida, i due scattano in piedi, si strattonano – forse lui le ha preso il cellulare per controllarglielo, non capisco. Faccio finta di telefonare per fermarmi a verificare che la situazione non degeneri – sennò telefono veramente, alla polizia; ma i due si dirigono verso un parcheggio lì di fronte, lei seppur bestemmiando sale in macchina con lui di sua spontanea volontà, e si allontanano insieme. Boh, sarà stato il caldo. Ma io questo fatto che la canicola faccia diventare aggressivi giuro non lo capisco: dove trova la gente la forza per alzare la voce, se non addirittura le mani, con la pressione bassa?

 

Attraverso parco Nemorense, piccola villa di quartiere: non c’è nessuno, a parte tre vecchi che leggono seduti su delle panchine – ok che sono all’ombra, ma non li ascoltano i telegiornali e le loro raccomandazioni? – e un mezzo clochard che sta sempre lì – dico mezzo perché in realtà si cambia tutti i giorni anche se sempre con vestiti sporchi; e dico clochard perché indossa un basco, anche con ’sto caldo. Arrivo a piazza Crati e mi affaccio nei due bar di zona (non ho bevuto niente, giuro!) per vedere che situazione c’è: poca gente in entrambi, da Arcioni tutti dentro (c’è l’aria condizionata e i tramezzini buoni), da De Angelis tutti seduti fuori (ci sono gli ombrelloni e il cremolato, che per chi non lo conoscesse è simile a una granita ma molto più buono). Insomma, i pochi che ci sono cercano refrigerio e sanno come ottenerlo.

 

Saluto le due erboriste de La Bouganville, è il loro ultimo giorno di lavoro, stanno chiudendo per le vacanze: in mattinata hanno avuto solo un paio di clienti e tutti casi umani (ce n’era una che voleva fare il test chinesiologico per il magnesio e contemporaneamente vendergli una linea di ciondoli che a suo dire rafforzano il sistema immunitario), per il resto calma piatta anche lì – di solito hanno la fila fuori. Le due erboriste – specie quella bionda – mi smuovono la circolazione sanguigna; e quando esco dal negozio, sotto il sole allo zenit, mi accorgo di pensare al sesso.

 

L’estate in effetti è una stagione molto eccitante nel senso erogeno del termine, o almeno lo è dal mio punto di vista di maschio eterosessuale e anche un po’ porco: scarpe aperte che mostrano i piedi (scusate la perversione), magliette leggere spesso senza reggiseno (un po’ per il caldo, un po’ per la pandemia che ha eliminato il superfluo, un po’ per i nuovi canoni estetici favorevoli all’autenticità), e quel luccichio di sudore sulla pelle che mi suscita una certa, torrida attrazione. Poi però fatelo voi, un rapporto sessuale con più di 30 gradi: i corpi sudati sgusciano via, lo stress cardiologico è da infarto, e se scopi con il ventilatore acceso rischi una sciatalgia (il sesso con l’aria condizionata non lo prendo nemmeno in considerazione). Io poi, a causa della mia temperatura corporea di cui sopra, in estate accumulo più rifiuti sessuali che durante il resto dell’anno – il che, dato il numero di volte già vertiginoso in cui vengo mandato in bianco da settembre a giugno, vi assicuro essere un record personale davvero notevole. Forse l’estate è fatta per accumulare l’eccitazione e la fantasia sessuale da sfogare poi durante l’autunno e l’inverno, quando fuori piove, con i maglioni a collo alto e quegli orrendi scarponi doposci che adesso vanno di moda persino a Napoli. Ma sto divagando – del resto l’avevo detto, che avrei bighellonato.

 

Villa Ada è un deserto, e non solo nel senso figurato del termine: è arsa, secca, sahariana come il caldo – è quasi l’una. Scappo, la sola vista di tutta quella siccità mi mette sete. O forse ho sete, decisamente. Resisto alla tentazione di bere a una delle rigogliose fontanelle che incrocio agli angoli delle strade, mi limito a bagnarmici i polsi e per il resto mi inumidisco le labbra passandoci la lingua sopra; e mi dirigo verso via Nomentana. In alcuni tratti l’asfalto è molle, i piedi affondano, e quando nei pressi di queste sabbie mobili urbane ci sono anche dei cassonetti della spazzatura con il loro inconfondibile fetore vengo pervaso da una sensazione di schifo e dal nichilismo più nero. Se ci fosse un banchetto firmerei per l’eutanasia legale, e ne ordinerei una subito a portar via.

 

Entro dentro Villa Torlonia: i pochissimi che ci sono dormono sulle panchine, alcuni sdraiati altri con la testa ciondoloni. In effetti questo caldo stordisce, ti mette addosso una fiacca assurda, vorresti solo dormire ma poi non ce la fai, fa troppo caldo persino per quello, e dopo sei ancora più stanco di prima. Quindi queste persone non dormono, è diverso, sono svenute. Potrei perdere i sensi anche io, sento che ne sarei in grado, se c’è una cosa che mi riesce bene nella vita è accasciarmi; ma ecco che mi suona il telefono. Rispondo, è una telefonata importante, roba di lavoro, la conversazione procede per diversi minuti con un andamento positivo e molto promettente per il futuro del mio conto in banca; mi sento tutto ringalluzzito finché il mio telefono non fa uno strano “toc!”.

 

Solo allora mi accorgo che un angolo del mio iPhone è parzialmente uscito dalla sua custodia rigida perché il mio telefono si è come gonfiato, tipo piegato. Per effetto del caldo? In effetti il mio iPhone è bollente, ma non posso attaccare, è una telefonata troppo importante e non sono abbastanza in confidenza con il mio interlocutore da potergli dire “scusa ma ora ti devo salutare che il mio telefono sta per esplodere”; così mi riparo sotto l’ombra degli alberi, e finisco la mia telefonata al fresco. Sì, perché l’unica cosa piacevole dell’essere per strada alle due del pomeriggio in pieno agosto è che dopo un po’ sei talmente accaldato che l’ombra risulta fresca veramente. Persino gli sbuffi di aria calda che ogni tanto si alzano dal suolo mi sembrano refrigeranti: probabilmente si tratta di un autoinganno della mente, un bias percettivo, o forse è il mio sistema endocrino che mi sta trollando.

 

Di certo non riesco a mitigare la sete: ho la lingua felpata, le labbra secche. E comincio a sudare, io che non sudo mai; per la precisione, superata Porta Pia e imboccata via XX Settembre, la mia schiena è allo stato liquido. In giro oltre a me ci sono pochi altri, tutti derelitti; all’altezza del Quirinale i primi turisti, vestiti come se fossero sul set de Il tè nel deserto, solo con le borracce. Scendo fino a Fontana di Trevi; dato l’assembramento metto la mascherina, ma la tolgo subito, con quel caldo è impossibile indossarla – e infatti non ce l’ha nessuno, nemmeno i vigili e la polizia municipale lì presenti a fare ordine pubblico. Sotto il sole d’agosto delle tre del pomeriggio Fontana di Trevi scintilla, l’acqua è meravigliosa, e capisco quelli che ci si buttano dentro per farsi un bagno. Anzi, non solo li capisco: solidarizzo e d’ora in avanti sosterrò il loro gesto. Andrebbe abolito il divieto di balneazione per le fontane del centro di Roma: vietiamo di tuffarsi e di fare la pipì in acqua, questo sì; e ingressi contingentati – uno alla volta, massimo tre. Ma per il resto dovrebbe essere concesso farsi il bagno nelle fontane durante la stagione estiva. Dite che è il caldo che mi fa venire strane idee? In effetti fa caldo, un caldo mostruoso; e ho sete, tanta sete. Maledico questo giornale, il suo direttore, ma sopratutto me stesso – è stata mia la malsana idea di scrivere questo pezzo in stile gonzo journalism. La gente mi guarda male, perché ho una tale arsura in bocca che muovo la bocca come avessi problemi alla dentiera, anzi smascello, sembro un cocainomane e invece è sete.

 

Su via del Tritone vedo cappotti, giacche a vento con il cappuccio alzato, maglioni di lana; penso subito che siano allucinazioni. E invece sono le vetrine della Rinascente con la nuova collezione autunno-inverno, che in pieno Lucifero aggiungono un nuovo significato alla parola “distopico”.
Procedo verso Piazza di Spagna, ormai barcollando; e quando vedo un posteggio taxi decido di prenderne uno e chiuderla qui. Poi però penso al sadico ludibrio dei lettori di questo pezzo, e allora proseguo a piedi e salgo la scalinata di Trinità dei Monti, con il sole che picchia sulla mia nuca, il biancore del travertino restaurato di recente che mi acceca, e tanta voglia di inginocchiarmi per succhiare gli scalini in cerca di sali minerali. Una volta in cima ho la mia prima visione mistica: Greta Thunberg con la veste bianca, che mi sorride e mi dice che se non facciamo qualcosa fra dieci anni faranno due gradi in più.

 

Sono le quattro del pomeriggio, passo per via Veneto (ormai una specie di parco archeologico del jet-set) e attorno a me vedo solo mostri: corpi deformi, facce gonfie e dai colori acrilici, andature caracollanti. A un certo punto mi vedo riflesso in una vetrina e sono un mostro anche io, tutto deformato, sembro una riproduzione in cera di me stesso fatta dal Museo delle Cere di Roma, cioè male. Deambulo per villa Borghese: non noto più niente, ho la mente offuscata, ho solo voglia di arrivare a casa; e sono talmente disidratato che ormai se passo la lingua sulle labbra fanno attrito e rischio l’autocombustione. Ho sudore ovunque, sulla fronte, lungo i polsi, e odoro di pollo ai ferri. Ho mal di testa, mi fa male la pancia, ho voglia di piangere ma non ho più liquidi in corpo, mi uscirebbe solo ghiaia.

 

Quando arrivo nel mio palazzo mi fermo un attimo nell’androne, dove la tipica brezza che arriva dalla tromba delle scale mi suscita risate isteriche fino alle convulsioni. Poi entro in casa e per prima cosa apro la doccia – ma non per lavarmi, la bevo. Finalmente m’infilo sotto al getto tiepido, e l’acqua che vedo scorrere dal mio corpo lungo la vasca è blu: la maglietta da marinaretto mi ha stinto addosso. E questa per me è un’immagine molto più eloquente di qualunque ghiacciaio sciolto o orso polare alla deriva

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