La conduttrice Barbara D'Urso con i Iva Zanicchi, a sinistra, e Cristiano Malgioglio (Ansa) 

Niente primedonne

Abbasso le dive

Fabiana Giacomotti

Le liti di Muti alla Scala, la serie “Halston”, le azzuffate dalla D’Urso. Dall’opera alla moda fino alla tv, è finita l’epoca delle prime donne

Due giorni dopo la scenata che Riccardo Muti ha fatto a Riccardo Chailly nell’anticamera del palcoscenico del Teatro alla Scala – eravamo lì per rallegrarci anche noi e filmare magari un abbraccio, sul nostro cellulare sono rimaste invece battute irriferibili – il sovrintendente Dominique Meyer ha finito di leggere la rassegna stampa mondiale, constatato che l’istituzione ne era uscita indenne e ha lasciato intendere a tutti di non volerla esporre una seconda volta a uno tsunami mediatico per motivi così indegni. Dunque no, Muti non dirigerà affatto l’opera che Meyer gli aveva già proposto e anticipato sui quotidiani, almeno fino allo scadere del suo mandato che sarà fra quattro anni, e tanti auguri se il maestro dovesse tentare di sovrapporsi alla Prima del prossimo 7 dicembre con la sua MasterClass di una settimana alla Fondazione Prada, dove è ormai certo che andrà. Non ci sono più le condizioni per un recupero.

 

Il mondo è cambiato, se fate le bizze sul nulla vi tirano i pomodori e forse non è un caso che Quodlibet abbia appena mandato in stampa proprio questa settimana una nuova tradizione di quella meraviglia del nonsense che è “La Cantatrix sopranica” di Georges Perec, in cui si studiano gli effetti del lancio di ortaggi sulle cantanti rompiscatole e lo “yelling effect” della loro reazione dolorante e offesa. La Scala che, aveva dichiarato Meyer dopo la nomina, avrebbe voluto trasformare in un’istituzione “buona per la mente e per l’animo”, non può spartire nulla con chi provoca e scatena fratture, per eccezionale che sia la sua direzione e geniale, colto e rigoroso il suo percorso musicale. Che Muti, come dice qualcuno a cui vogliamo dare credito, sia malleabile e pacato in qualunque teatro mondiale che non sia il fatale Piermarini, da cui venne convinto a lasciare la direzione musicale nel 2005, non è più da considerare una giustificazione, ma un’aggravante. Insieme con i Cinque stelle è tramontata anche l’epoca della stella unica, la primadonna. Dovesse arrivare adesso Maria Callas a graffiare le mani e a prendere a calci il Giuseppe Di Stefano di turno per uscire da sola in proscenio a prendere applausi e fiori, verrebbe graffiata a sua volta senza remore, e il suo gesto fotografato, filmato e caricato sui social dalle comparse e dal coro in attesa dietro le quinte.

 

Per paradosso, Twitter e Instagram, che sembravano solo moltiplicatori di vanità personali o di esigenze narrative aziendali, sono diventati i dazebao delle idiosincrasie collettive, rendendo intollerabili le bizze, i capricci, la vanagloria che proprio lì vengono inchiodati e che subito si moltiplicano a catena. Solo tre anni fa, il fattaccio della Scala sarebbe stato accolto fra le risate e una scrollata di spalle come il prezzo da pagare per ospitare un genio. E non abbiamo dubbi che Muti avrebbe ottenuto contratto, opera e nuovi applausi così come, negli anni d’oro, i giornali titolavano che “monsignor Montini avrebbe negoziato la pace fra la Callas e la Tebaldi” e i lettori ne godevano, quasi fosse stato una succosa derivazione della Guerra Fredda – e un po’ lo era. Potete immaginate adesso quei pur deliziosissimi titoli sulla “lotta a colpi di becco fra i due canarini del secolo”? Le primedonne abili di oggi duettano sulla musica di Delibes tenendosi per mano, “Viens Mallika”, come Elina Garanca e Anna Netrebko, che pure di carattere è un ussaro, mentre le attrici aprono case di produzione pro-women come Reese Witherspoon, o ancora fanno i carpool karaoke in montaggio video abbinato ed eliminando il padron di casa, modello Lady Gaga e Adele senza James Corden. Peace and love, anzi diversity and inclusion che ne è il derivato del momento: arriva la prima, presumibile, summer of love dopo il disastro Covid e non vogliamo farci cogliere inadeguati al momento. Nella vita reale si può continuare a detestarsi, ci mancherebbe, ma la baruffa, il catfight a favore di telecamere e perché si sappia riscuotono più riprovazione che applausi.

 

Dopo l’intemerata su Facebook in difesa del figlio indagato per stupro di gruppo, Beppe Grillo è scomparso, non è chiaro quanto volontariamente. Anche fra i suoi beneficiati che siedono alla Camera e in Senato, nessuno si è davvero schierato a suo favore. I più volenterosi hanno scelto con molta cautela la strada del cuore, del povero padre colpito negli affetti; dopodiché, su Grillo è calato un silenzio tombale, mentre lui inserito nella categoria degli infrequentabili. Infliggere agli altri le proprie paturnie, fare le bizze, dar prova di non sapere controllare nervi e lingua e carattere non è più ammissibile, qualsiasi sia la ragione e anche se il mondo commenta le nostre esternazioni con una valanga di emoticon dagli occhi stellanti; non fa più nemmeno audience, basti vedere la raffica di chiusure che sta per toccare ai programmi trash guidati da Barbara d’Urso, tutti scientemente organizzati sulla rissa e sul conflitto fra poveri cristi innalzati in vario grado al ruolo di primedonne. Viene da domandarsi se quella sua genia di autori riuscirebbe a trovare adesso, in epoca di body positivity, una ragazza disposta a farsi insultare da quel sedicente dietologo con le scarpe gialle e la voce stridula che offendeva le donne nel “Live” domenicale di qualche stagione fa e a cui dedicammo molte righe inutilmente indignate perché si era appunto in anni diversi e la cafoneria acribiosa piaceva moltissimo anche a fasce di pubblico insospettabili.

 

Ve ne sarete certamente accorti, da qualche stagione Bruno Vespa ha riformulato “Porta a Porta” sul format di un rotocalco, che di fatto contiene le incontinenze verbali e i soliloqui degli ospiti. Fra le tante rivoluzioni non dichiarate che questa pandemia ci sta rovesciando addosso, il crollo del mito della primadonna, del divo, dell’ego ipertrofico e maleducato, è quello che ci resterà addosso più a lungo, perché rivoluzionerà i rapporti di lavoro e, di conseguenza, quelli personali. Non è l’effetto dell’eccesso di correttezza politica, e non è nemmeno che siamo diventati più buoni (ogni volta che lo sentiamo, ci viene in mente quello scambio di battute fra Leonhard Frank, che aveva titolato “L’uomo è buono” un suo libro sulla tragedia della Prima guerra mondiale, e Brecht che gli replicò “anche il vitello”), ma diciamo che adesso Alberto Sordi, di cui si celebra ancora il centenario dalla nascita avendo il Covid ritardato tutte le celebrazioni, avrebbe qualche difficoltà a mettere in scena uno di quei suoi personaggi sgradevoli, vanitosi e meschini. Forse dovrebbe rivedere il tiro oltre il grottesco e rientrare nei parametri dell’autoironia, l’unica cura riconosciuta per i prof. dott. Guido Tersilli della “Clinica Celeste convenzionata con le mutue”.

 

Da qualche giorno, stiamo monitorando sulla classifica di Netflix l’andamento non proprio eccezionale della serie “Halston” che, in caso qualcuno fra i lettori di questo articolo fosse troppo giovane o troppo disinteressato alla moda per ricordarsene, è stato quel tipo molto azzimato che ha animato feste mondiali allo Studio 54, vestito Liza Minnelli, Anjelica Huston e Bianca Jagger anche nella celeberrima entrata a cavallo del compleanno 1977 (e qui non sentiamo scuse, la dovete sapere), tenuto a battesimo la creatività di Elsa Peretti e insegnato al mondo quanto potesse mozzare il fiato una donna con un semplice abito a colonna con scollo all’americana (in gergo, the halter dress) in luogo dei falpalà di Oscar de la Renta o dei guantini della maison Dior di allora. Oltre che all’invenzione delle linee diffusione per i grandi magazzini, cioè della copia meno ricercata ma di buon taglio della collezione prima linea, Halston è alla base di tutta l’estetica dei Settanta di matrice americana e del futuro Tom Ford, e dunque in buona parte l’antesignano di quell’allure algida ma rigorosa che anche l’ultimo erede creativo di Gucci, Alessandro Michele, è in grado di esercitare, quando ne ha voglia. Halston diede impulso come mai era accaduto al fenomeno delle influencer (la genia è antica: le sue si chiamavano “the halstonnettes” e comprendevano qualche ex cigno di Truman Capote) e anche a quello dell’autocelebrazione a fini mediatici, comparendo personalmente nelle proprie campagne pubblicitarie. Però, nulla o ben poco di tutto questo si trova nella mini-serie che, abbiamo l’impressione, venga guardata un po’ dai modaioli per dovere di cronaca, un po’ dalle signore per via dei primi piani di Ewan McGregor che interpreta il protagonista, ma che annoi tutti per la ripetizione ossessiva delle orge di coca e delle scene di isterismo autoreferenziale. Non siamo mammole, non siamo mai state costrette a entrare allo Studio 54 dal condotto dell’aria condizionata come quella poveretta che settimane dopo venne trovata morta in una delle tante ispezioni della polizia, e abbiamo visto girare montagne di sostanze anche nei primi Ottanta della solita Milano da bere; eppure, ci pare che questa nuova derivazione dell’archetipo dello stilista gay e fuori controllo non stia piacendo perfino a chi crede che la moda sia proprio questo.

 

Per produrre una buona sceneggiatura non basta replicare a nastro gli urletti e le scopate senza cerniera, per non dire dei tiri di polverina bianca che, a un certo punto li abbiamo contati, hanno raggiunto la quota di ventotto in 45 minuti di puntata, in pratica una ogni minuto e mezzo, interrompendo l’azione e distogliendo l’attenzione da quello che avremmo guardato con interesse, e cioè la storia vera (per inciso: il padre di Halston forse sarà stato manesco, ma non era un coltivatore che tirava a campare in una fattoria sperduta nello Iowa, bensì un contabile con casetta elegante e il piccolo Roy ricevette un’educazione di prim’ordine. Ci fosse una volta che Ryan Murphy non inserisca falsità strappalacrime nei serial che supervisiona). Anche questo tipo di racconto, in questi termini, arriva fuori tempo massimo: a chi importa di vedere e rivedere Halston che si fa inchiodare da un escort ad Alphabet City tutte le sere? Dobbiamo davvero assistere alle sue scenate quotidiane contro gli assistenti e riascoltare dieci volte le battute sulle orchidee che non sono mai abbastanza?

 

Con la morte di Saint Laurent, di Karl Lagerfeld, con il suicidio di Alexander McQueen e la rehab di John Galliano che ormai è un signore colto e pacato e il ritiro di Valentino “ultimo imperatore”, quel mondo è morto, finito, sepolto; se Phoebe Philo, brava com’è, non trova nuova collocazione, è molto probabilmente perché vi appartiene ancora. Doveste parlare adesso con un head hunter o uno di quei coach per manager desiderosi di rimodellare il proprio comportamento a fini di carriera, vedi Gianni Scaperrotta o Roberto d’Incau, vi direbbero entrambi che gli azionisti oggi preferiscono un amministratore delegato o un direttore creativo magari un po’ meno brillante, ma capace di fare squadra, cioè di essere inclusivo nel senso proprio del termine, rispetto a quelli che hanno l’esclusiva di tutto, a partire dall’arroganza.

 

Sul tema, D’Incau ci ha detto anzi che la caratteristica maggiormente ricercata al momento è quella specifica capacità di moltiplicare i talenti altrui, insieme ai propri, che va sotto la definizione di “leadership risonante”. Ne scrisse per la prima volta Richard Boyatzis una quindicina di anni fa: si era ancora nell’epoca della insopportabilità applicata come modello di distinzione e dunque vi facemmo meno caso di quanto ci capiti oggi quando, anzi, l’empatia ci viene indicata come una possibile chiave di lettura delle recenti nomine di donne in ruoli istituzionali apicali, ultima fra molte l’ambasciatrice Elisabetta Belloni a capo dei Servizi: “Le signore lavorano meglio sulla condivisione”, chiosa D’Incau, lasciando intendere che in questa avanzata femminile ai vertici delle università e degli istituti di ricerca le quote rosa non c’entrino per niente e che ci troviamo solo in un momento congiunturale favorevole per piazzarci al meglio. “La vita, istruzioni per l’uso”, e per citare sempre Perec che bisognerebbe proprio rileggere, ci sta dando come sempre molte indicazioni utili.