Una scena del film Suburra di Stefano Sollima

Guerre di mafia in tv

Andrea Minuz

Non c’è canale pubblico o privato senza una fiction su Cosa nostra e altre cosche. C’è un patto fra Rai e Mediaset: di là i buoni, di qua i cattivi raccontati “da dentro”. E poi arriva “Suburra”

“Se la sceneggiatura è brutta, ambientala negli anni Settanta”. Recita così un antico proverbio in uso nei corridoi del ministero dei Beni culturali, direzione Cinema, sezione “contributi a progetti di interesse culturale”. Il suo corollario televisivo è: “Mettici la mafia”. Ancora meglio, “tutte le mafie”. Nel passaggio dal singolare al plurale si esprime un salto di paradigma in linea con la mutata sensibilità di questi anni (le fiaccolate si fanno “contro tutte le mafie”), ma anche con l’espansione dei canali e l’aumento esponenziale della concorrenza televisiva. Ramificate nel digitale terrestre e nei palinsesti del servizio pubblico, le mafie si insinuano nelle reti private, si infiltrano nelle pay-tv del Nord e si spartiscono la fiction tra accordi, alleanze, strategie condivise e trattative. Il patto è chiaro. A RaiUno l’antimafia, a Mediaset la mafia, su Sky la camorra, a RaiTre “Mafia Capitale”. RaiDue sta esplorando le potenzialità della “mafia garganica”, Foggia e dintorni, come nella recente puntata di “Nemo”, Sky e Discovery lanciano Saviano all’inseguimento globale della cocaina, mentre la trattativa Stato-Netflix ci ha già regalato “Suburra – la serie”, su cui torneremo più avanti.

  

A RaiUno l'antimafia, a Mediaset la mafia, su Sky la camorra, a RaiTre Mafia Capitale. Il lancio di Saviano

Per uscire dalla logica di un conflitto frontale che si trascinò per anni nell’immediato dopo “Piovra”, Rai e Mediaset si avviarono ben presto su due binari paralleli e assolutamente speculari. Di qua giudici, magistrati, questori, commissari, madri coraggio, vittime della mafia, eroi del quotidiano. Al massimo, un po’ di mafia-in-giallo, versione light, à la Sellerio-Montalbano, con un occhio ai mafiosi e uno ai profumi della Sicilia (spopolano su internet forum con le “ricette di Montalbano”, dove in molti si chiedono come mai a volte beva il nero d’Avola con la spigola). Di là il racconto “da dentro”, la scalata ai vertici di Cosa nostra, gli amori e i turbamenti del giovane Riina, sempre sfiorando paurosamente le leve di una rischiosa empatia coi cattivi, seppur bilanciata da otto stagioni di “squadra antimafia”, quindi un’antimafia ruvida, poliziottesca, “all’americana” o alla Valsecchi. Un patto durato per anni. Rotto solo dall’arrivo di Sky che si è infilata nello spazio lasciato libero dall’accordo Rai-Mediaset, riscrivendo le regole della nostra fiction senza calpestare i piedi. Via la mafia, dentro banda della Magliana, Tangentopoli, Camorra.

   

Oggi il successo di “Gomorra” (libro-film-serieTv) spinge gli sceneggiatori Rai dalle parti di Scampia. Ecco “Sotto copertura – la cattura di Zagaria”, in onda su RaiUno questa settimana, tanto per iniziare a prendere le misure con un po’ di anticamorra e spianare forse la strada a una possibile “Gomorra” coi buoni, magari da mandare in onda in seconda serata, dopo “Un posto al sole”. ‘Ndrangheta e fiction si snobbano a vicenda. Il territorio d’altronde non si presta. Vuoi mettere Roma, Palermo, Napoli con la spianata di Gioia Tauro? Forse anche per questo l’unica fiction di “’Ndrangheta” si intitola “Solo”, con l’agente sotto copertura Marco Bocci che dà la caccia ai clan tra Istanbul e Cosenza. Secondo una recente relazione della Direzione investigativa antimafia in Sicilia ci sono 181 famiglie. L’obiettivo della nostra televisione sembra quello di raccontarle tutte. Difficile fare il calcolo delle fiction di Mafia prodotte negli ultimi anni tra Rai e Mediaset. Così, in ordine sparso e dimenticandone probabilmente parecchie: “L’attentatuni”, “L’assalto”, “Brancaccio”, “Giovanni Falcone: l’uomo che sfidò Cosa Nostra”, “Era mio fratello”, “Questo è il mio paese”, “L’ultimo dei Corleonesi”, “Tutta la musica del cuore”, “Per amore del mio popolo”, “Paolo Borsellino”, “Joe Petrosino”, “Il Capo dei capi”, “L’ultimo padrino”, otto o forse nove stagioni di “Squadra antimafia”, cinque stagioni di “L’onore e il rispetto”, “Lea”, “Blindati”, “Maltese”, “Il clan dei camorristi”, “Boris Giuliano” “Le mani dentro la città”, “Operazione Odissea”, “La mafia uccide solo d’estate”. La mafia televisiva ha un suo star system consolidatosi nel tempo attorno a pochi volti. Dalle vette di Michele Placido, l’Humprey Bogart degli attori di mafia che ha aperto la strada alle nuove leve, ai piani bassi dei caratteristi palermitani à la Tony Sperandeo. Poi ovviamente Beppe Fiorello per i biopic, Pif che si candida a diventare il Roberto Benigni delle mafie, Giulia Michelini, Claudio Gioè. Quest’ultimo incarna alla perfezione l’attore italiano che vive di mafie. Nel corso degli anni, Claudio Gioè è stato Antonio Ingroia, Totò Riina, poi vice questore aggiunto alla squadra mobile di Palermo, infine capo della squadra mobile di Napoli. Una carriera esemplare tra mafia e antimafia, come quella del Maestro Placido, passato dal Commissario Cattani a Falcone e Provenzano. L’accordo Rai-Mediaset garantisce un costante andirivieni tra le due sponde. Così, se RaiUno racconta la vita e il dolore di Felicia Impastato, Canale5 si inventa “Rosy Abate” con Giulia Michelini spietata madrina della Cupola tra “Kill Bill” e “Se non ora quando”. Nella fiction italiana, Mafia e Antimafia sono come il Dottor Jekyll e Mr. Hyde. Da vent’anni, Rai e Mediaset raccontano la lotta senza fine tra lo Stato e la Mafia spartendosi i due ruoli, battaglia per la legalità e fascinazione per il crimine. Quella della Rai, d’altronde, è una scelta obbligata. La televisione di Stato deve raccontare i buoni, ispirare il senso civico, dare l’esempio alle future generazioni. Lo spiega bene il manifesto “Nessuno escluso”, prontuario per i produttori intenzionati a lavorare con la Rai. “La fiction Rai”, dice il manifesto, “deve contribuire al superamento degli stereotipi culturali attraverso una rappresentazione veritiera della società civile, orientata al recupero di identità valoriali e rispettosa delle diverse sensibilità”, cioè di tutte le mafie. Però nel manifesto la mafia non si nomina mai. Tantomeno l’antimafia. Si parla semmai di “poliziesco”, “procedural”, “crime story”, ovvero “tre diversi generi che hanno una storia consolidata su RaiUno, dal Commissario Cattani, al Maresciallo Rocca a Montalbano, che in tempi diversi e con una significativa longevità hanno raggiunto record di ascolti e impersonato dei modelli che non è esagerato accostare al mito”. RaiUno cerca “profeti della legalità”, come ha detto Leoluca Orlando a proposito della fiction su Rocco Chinnici, una “straordinaria storia di uno straordinario profeta di un tempo nuovo che ha vissuto la profezia della legalità in un tempo nel quale i suoi avversari più grossi stavano nel Palazzo di Giustizia e nelle istituzioni”, un tempo, proseguiva Orlando, “in cui la mafia aveva il volto dello Stato”. Profeti della legalità pensati per due target precisi: anziani e studenti delle medie, con gli attori delle fiction che vanno a fare i testimonial dell’antimafia durante le proiezioni forzate in classe (come con “La vita è bella” per il giorno della memoria). Fiction di Stato che marcano la differenza con il linguaggio pericolosamente “accattivante” delle reti private. Solo a pochi eletti, come Roberto Saviano, è consentito transitare contemporaneamente dall’alveo della tv pedagogica (per la serata-evento “Falcone e Borsellino”) al noir senza scampo di “Gomorra”, dove non ci sono i buoni, dove non ci sono gli eroi, solo violenza cieca e inquietante inabissamento dello spettatore nella logica del crimine. Ai buoni ci pensa la Rai. Come ricordava Enrico Lo Verso sulle pagine di questo giornale, “la legislazione antimafia è stata mostrata come un simbolo dell’eccellenza tutta italiana, l’arma in più che gli altri paesi invidiano alla lotta di casa nostra a Cosa nostra”. Così, se gli americani hanno inventato il mafia-movie, Rai Fiction e Rai Cinema sono i paladini dell’antimafia-movie.

   

Claudio Gioè, l'attore che vive di mafie: è stato Antonio Ingroia, Totò Riina, vice questore a Palermo e capo della Mobile a Napoli

Però, di fronte alla sempre crescente concorrenza dei modelli della serialità americana, o quantomeno di Sky e Valsecchi, non ci può voltare dall’altra parte. Oggi anche la legalità vuole l’action. Ecco “Cacciatore di mafiosi”, fiction d’antimafia in stile poliziesco che racconta la storia del magistrato del pool di Giancarlo Caselli, Alfonso Sabella, tratta dall’omonimo romanzo del magistrato Alfonso Sabella, la “storia di un uomo che sacrifica tutto in nome della Giustizia”. Una fiction attraverso cui “rivivere alcune delle pagine più cruente della nostra storia come le bombe di Firenze, Bologna e Milano, le stragi di Capaci e Via D’Amelio in cui muoiono Falcone e Borsellino”. Fiction di magistrati scritte da magistrati. Un’epica tutta italiana, praticamente il nostro western. Niente di più facile nel paese delle verità insabbiate, della giustizia imperscrutabile, delle sentenze incerte, perché solo lì dove non arriva il faldone può tendersi la speculazione romanzesca. Dopo le avventure del pool di Palermo, Sabella fu chiamato dall’ex sindaco Ignazio Marino per il ruolo di “assessore alla legalità e alla trasparenza” del Comune di Roma, con delega per il litorale di Ostia. Di fatto, uno spin off di “Suburra” che lo proietta verso il secondo romanzo, quello della maturità: “Capitale infetta”, con sottotitolo interrogativo, “si può liberare Roma da mafie e corruzione”? Così, quando la mafia o le mafie spariscono dalle sentenze restano pur sempre nelle fiction. Sgonfiato nelle aule di tribunale, il filone Mafia Capitale ci ha comunque garantito sin qui un accordo con Netflix e una docufiction su RaiTre (“I mille giorni di Mafia Capitale”) dalla quale emergevano con chiarezza due punti fermi: c’è più trama in un benzinaio di Corso Francia che in tutte le fiction di RaiUno; Massimo Carminati è di gran lunga il miglior attore del genere e in un paese più giusto un David di Donatello non glielo leverebbe nessuno. Trasferita negli scenari di Netflix, che poi significa Rai sotto mentite spoglie, l’epica di Mafia Capitale si affloscia come nelle aule di Giustizia. Dopo due minuti del primo episodio contiamo un’orgia col prete da far rimpiangere l’assai burina ammucchiata di “Eyes Wide Shut”, pecore squartate, androidi borgatari che vagano sul litorale di Ostia come in “Blade Runner 2049”, una sigla fatta coi sampietrini che dovrebbe suggerire “visivamente” il salto di qualità rispetto all’immaginario statale della fiction italiana. A noi più che altro è parsa una puntata sperimentale dei “Cesaroni” con coca, sesso, violenza e ovviamente molta corruzione ecclesiastica. D’altronde, Netflix aveva solo bisogno di agganciarsi a un’immagine della città sufficientemente diversificata dal prolungamento HBO della “Grande bellezza”, cioè “The Young Pope” di Sorrentino. La città è tutto. Se la fiction di mafia all’italiana pensa un mercato globale deve anzitutto legarsi a un luogo con un forte immaginario turistico (da qui la vera difficoltà di raccontare la ‘Ndrangheta al cinema e in televisione). Forse non è un caso se la prossima, imminente terza stagione di “Gomorra” sposta l’azione verso il centro della città (a Scampia i turisti non ci vengono). L’ascesa di Sky nella serialità italiana si è d’altronde consolidata lunga una triangolazione perfetta: Roma (“Romanzo Criminale”); Milano (“1992”); Napoli (“Gomorra”). Non c’è crime senza dramma urbano, come sapevano bene i registi dei noir hollywoodiani.

“Gomorra” ha fatto fare un salto nel futuro alla nostra fiction di mafia puntando su un target che non vedrebbe “Joe Petrosino” con Beppe Fiorello o Michele Placido che fa Bernardo Provenzano su Mediaset neanche sotto tortura. La serie più vista di sempre su Sky è anche la più ambiziosa sotto il profilo del linguaggio. Non a caso, la terza stagione sarà presentata in anteprima nei cinema, soluzione inedita per il lancio di una serie televisiva che apre nuovi scenari di consumo. “Gomorra” racconta l’avanzata globalizzazione della fiction di mafia. La strada ormai è quella. Rai e Mediaset si spartiscono il mercato interno, Sky punta al circuito globale. Come nel progetto di otto episodi tratti da “Zero, Zero, Zero” di Saviano, un “narco-drama” pensato come un world tour della coca, con riprese tra Messico, Italia, Stati Uniti, Inghilterra, Spagna, Africa Centrale. Come i “mondo-movie” di Gualtiero Jacopetti ma con la mafia. Il “mondo-mafia movie”. E viene in mente quel che diceva Sciascia sul film di Lattuada, “Mafioso”, con Alberto Sordi, quando affermava che di fronte a racconti del genere, strutturati sulla ramificazione pervasiva del crimine organizzato in tutti gli aspetti della vita sociale, ormai “siamo portati a chiederci non più che cosa è la mafia, ma che cosa la mafia non è”.

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