Antonio Tajani

Votantonio, votantonio (Tajani)

Marianna Rizzini

Da dove viene e dove va il presidente dell'Europarlamento, nome “in vece di Berlusconi” per la premiership di centrodestra

Metterci un altro, questo è il problema. Mettere un altro alla guida formale del centrodestra in caso di listone e di non riabilitazione di Silvio Berlusconi via sentenza della Corte di Strasburgo. Ma se questo è il problema, Silvio Berlusconi l’ha già risolto nella sua testa, come hanno scritto Repubblica e Corriere della Sera nei giorni di fine estate e pre-rilancio elettorale: in cima al centrodestra da possibile listone, come candidato premier e nome da spendere, Silvio Berlusconi vuole metterci Antonio Tajani, presidente del Parlamento europeo, europarlamentare di lunghissimo corso, ex commissario europeo all’Industria e ai Trasporti nonché candidato sindaco di Roma contro Walter Veltroni nel 2001, sconfitto al ballottaggio dal “Uòlter” alla prima prova in Campidoglio (“prendo atto della tendenza”, fu la frase memorabile di Tajani nella notte in cui, ai Parioli, alcuni suoi giovani sostenitori giravano mesti con indosso magliette dalla scritta “Veltroni non è il mio sindaco”). Un particolare, quello dell’antica corsa a sindaco, che può anche essere politicamente ininfluente nella prospettiva suddetta – e da Tajani prontamente smentita – dell’aleggiante nomination per la premiership paraberlusconiana (“io resto al Parlamento europeo, credo che il miglior candidato per la vittoria sia Silvio Berlusconi”, ha detto Tajani), ma che non è invece ininfluente per la drammaturgia dell’uomo e del centrodestra tutto. Nemesi vuole, infatti, che il Tajani sconfitto tanto tempo fa da Veltroni, il Tajani che nel ’94 non poté essere eletto al Parlamento italiano per un problema burocratico in capo alla lista (le famose “irregolarità formali” che altre volte il centrodestra sperimenterà, per esempio ai tempi della corsa alla regione Lazio di Renata Polverini), abbia non soltanto trovato soddisfazione all’estero, con l’elezione alla presidenza del Parlamento europeo ottenuta, dicono a Bruxelles, “con una campagna vecchio stile di mobilitazione di amici ed estimatori nei corridoi”, ma sottotraccia anche in patria, dove non è profeta ma presenza ricorrente. Lontano, sì, ma immerso fino al collo nelle cose italiane. Non a caso da anni Tajani organizza a Fiuggi una convention di riflessioni per così dire sospese tra Roma e Bruxelles (titolo: “L’Italia e l’Europa che vogliamo”). E il 17 settembre ci andrà Berlusconi, ma ci andranno anche Maurizio Gasparri, Paolo Romani, Renato Brunetta, Mara Carfagna, Maria Stella Gelmini e Alessandra Mussolini. E anche se Tajani smentisce, c’è pur sempre l’urgenza di prepararsi all’eventualità che la sentenza di riabilitazione del già Cav. Silvio Berlusconi non arrivi in tempo per le elezioni, e c’è la necessità di intercettare quel terzo di elettorato che vorrebbe non l’uomo forte ma l’uomo di “buonsenso”. E quel Tajani convinto che “il populismo si combatta risolvendo i problemi dei cittadini”, ex coordinatore di partito definito da un maligno del partito “uomo dalle molte risorse comunicative tra cui quella di parlare poco”, pare incarnazione di buonsenso anzichenò: non fosse per il passato da giovane monarchico, con trascorsi nella destra-destra, Tajani è considerato talmente moderato (“europeista!”, dicono con molti punti esclamativi tutti quelli a cui si chiedano lumi sul Tajani possibile riserva non della Repubblica ma del centrodestra in cerca di rilancio) da essere descritto, di volta in volta, come “pompiere” (di liti interne a Forza Italia e al Ppe) e “pontiere” (nel centrodestra e addirittura lungo l’asse Italia-Germania-Berlusconi-Merkel). Di sicuro il lato diplomatico-istituzionale di Tajani, racconta un osservatore di palazzi europei, “si è affinato negli anni”. E insomma molta strada è stata fatta da quando Tajani, già giornalista al Gr1 e al Giornale di Montanelli (dove a 38 anni divenne capo della redazione romana), già soldato berlusconiano ai tempi della discesa in campo nel ’94, poi portavoce governativo, era giunto a Bruxelles e Strasburgo armato, come dice un amico burlone, “soprattutto della voglia di tornare a Roma”. Invece arrivarono anni proficui di mandati europei a catena e riconoscimenti internazionali che, a un occhio profano, possono apparire di nicchia rispetto ai grandi giochi politici – vedi il conferimento del titolo di Ufficiale dell’Ordine della Legion d’Onore dalla Francia e della Gran Croce dell’Ordine al Merito Civile dalla Spagna, e l’intitolazione di una via “Tajani” nella città di Gijòn, Principato delle Asturie, come ringraziamento per aver salvato il posto di lavoro di duecento operai impiegati in una multinazionale americana che voleva delocalizzare.

 

La sentenza di Strasburgo, Berlusconi e l'ipotesi alternativa: mettere un altro in cima a un listone di centrodestra

Non è da questi particolari che si giudica un giocatore, ma è anche da questi particolari che si parte per ascendere alla presidenza del Parlamento europeo, dopo quattro scrutini, e dopo aver battuto l’altro italiano, Gianni Pittella, candidato dei socialisti. Eppure si sospetta che nulla di tutto ciò abbia contribuito ad accendere la fantasia di un Tajani candidato premier nella mente di colui che un tempo era chiamato semplicemente “Cav.”, Cavalier Silvio Berlusconi. Conta più che altro il lungo, lunghissimo precedente del Tajani giornalista stimato da Gianni Letta e presente alla vigilia di tutto, cioè prima che tutto cominciasse, prima del messaggio televisivo preregistrato della discesa in campo di Berlusconi, prima della prima campagna elettorale del ’94 in cui si sfidavano il “neofita” Berlusconi e l’Achille Occhetto della “gioiosa macchina da guerra” e soprattutto dopo l’invito a comparire arrivato a Berlusconi nel bel mezzo della conferenza internazionale a Napoli. Tajani, portavoce dalla camicia a riga larga, è lì nel momento migliore e nel momento peggiore (come ha raccontato su Formiche.net Paola Sacchi, a quel tempo cronista dell’Unità, Tajani è lì, cioè in Parlamento, anche quando, dopo il recapito dell’invito a comparire a Berlusconi, molti pensano sia giunto il momento della vendetta gauchiste in stampo manifestazione anni Settanta fuori tempo massimo. Tajani viene infatti aggredito verbalmente in ascensore da una cronista, al grido di “fascisti, carogne, tornate nelle fogne”. Non reagisce. Resta portavoce. Pochi mesi dopo è già a Bruxelles, essendo peraltro sfumata la precedente possibilità di ingresso al Parlamento italiano per via della suddetta irregolarità formale della lista).

 

Con gli anni, l’ombra del passato destrorso ha perso cupezza, anche grazie all’incredibile, ma forse vera, leggenda metropolitana che vuole Tajani “nipote di Pietro Badoglio”, nel senso non di un Badoglio nonno, come inizialmente pure si disse, ma di un Badoglio fratellastro di una sua bisnonna (la variante e il corollario della storia vedono un Badoglio testimone di nozze dei nonni di Tajani). Sia come sia, ci furono anni caldi per il Tajani ragazzo di destra al Tasso, liceo frequentato anche da Paolo Gentiloni e Maurizio Gasparri. Ma ci fu anche una virata moderata nella tarda adolescenza, forse favorita dal cambio di scuola (dal Tasso al Lucrezio Caro). Figurarsi lo stupore negli ambienti gentiloniani pochi giorni fa, quando si è appreso che Tajani, il nome “in vece di Berlusconi” che circola nella mente di Berlusconi, è stato soprannominato dai nemici interni “il Gentiloni di Berlusconi”.

 

Il passato da giovane monarchico, il liceo Tasso, la leggenda della parentela con Badoglio, i rapporti con Salvini

Ma di questo (per ora) non si cura o finge di non curarsi il presidente del Parlamento europeo, che in Europa vanta estimatori che non la pensano come Matteo Salvini (“…ho visto che Berlusconi ha cambiato tanti nomi, io mi preoccupo di più del programma e della nostra squadra”, ha detto il leader della Lega quando la notizia del Tajani possibile candidato premier si è diffusa: “Tajani è responsabile di tutte le scelte di questa Europa, dove governa insieme al Pd, una Europa che tutti dicono che così come è non va bene. Bisogna tener presente che le decisioni prese da Bruxelles sulle banche, sull’agricoltura, come le sanzioni alla Russia e i regali alla Turchia hanno visto Tajani corresponsabile…”). E però Tajani, che in Europa si è autonomizzato da Berlusconi senza mai staccarsene – neppure nei giorni di crisi diplomatica in cui l’allora Cav. disse che Martin Schulz, europarlamentare e capogruppo della Spd, poi presidente del Parlamento europeo, gli pareva adatto per il ruolo di “kapò” – si è costruito una fama ibrida da conservatore con punte di progressismo, che ora tornano utile nella prospettiva nazionale di governi dialoganti obtorto collo con gli avversari. E dunque l’ibrido Tajani, per esempio sui diritti umani in campo internazionale, viene descritto tra Bruxelles e Strasburgo come grande ammiratore politico del compianto Marco Pannella, difeso pubblicamente in aula anche quando, ai tempi della Commissione Prodi, qualche funzionario mostrava troppo visibilmente e in modo offensivo – al limite del “vaffa” – di non gradire gli interventi del leader radicale. Sul tema lavoro Tajani invece si è ritrovato protagonista di una specie di film di Ken Loach, quando un gruppo sindacale di sinistra spagnolo sì è speso perché gli venisse dedicata la suddetta strada di Gijòn, anche detta “la Livorno delle Asturie”, e l’allora commissario europeo all’Industria, che aveva fatto riaprire lo stabilimento della Tenneco, produttrice di ammortizzatori per auto, fu dipinto come paladino di lavoratori oppressi dai poteri forti internazionali. Ci furono mesi di trattative – si narra di un Tajani che fa la spola tra Bruxelles e gli uffici della Tenneco a New York, in nome “dei princìpi e dei valori dell’economia sociale di mercato”, come dirà durante la cerimonia d’inaugurazione della “Calle Antonio Tajani”.

 

Il Tajani presente prima della discesa in campo del Cav. nel '94 e quello della "non-vittoria" contro Veltroni a Roma nel 2001

E oggi, mentre Tajani ribadisce di voler restare in Europa, nelle segrete stanze di Forza Italia si soppesa il suo profilo nella prospettiva di alleanze forzate con alleati malmostosi, tanto più che Berlusconi ne parla come dell’“uomo che sa mettere tutti d’accordo”. Non è proprio come chiamarlo il “gioiello”, soprannome affettuoso con cui Berlusconi apostrofava Tajani ai tempi della tentata e fallita scalata al comune di Roma, ma la stima pare immutata. E quando si chiede a qualche collega di partito che cosa ricordi di quella notte di non-vittoria del 2001, c’è chi ritira fuori il discorso della non-vittoria di Tajani, che pure ci aveva sperato, nell’elezione a sindaco, e che però si era fermato a un 47, 8 per cento, percentuale che gli era parsa particolarmente amara, essendo giunta nell’anno in cui il centrodestra aveva vinto le elezioni. “Dobbiamo essere orgogliosi, ricominciamo a testa alta”, aveva detto allora il pur sconfortato Tajani con un mezzo sorriso, mentre Veltroni muoveva i primi passi da sindaco pronunciando una frase che in futuro risulterà irripetibile sul piano nazionale (“…insieme si vince, tutti noi insieme… noi con i pensionati, con Rifondazione, con Di Pietro…”).

 

E ora che il nome “Tajani” è stato lanciato, il nome è stato anche inghiottito dal paludoso settembre delle feste di partito (a sinistra) e delle convention (a destra) e delle investiture di candidati via web (nel M5s). “Guardate settembre e capirete”, dice un insider di Forza Italia, partito in cui nessuno vuole sbilanciarsi sulle sorti di “Tajani il belga”, come lo chiamano coloro che vorrebbero restasse tra Strasburgo e Bruxelles, dove il presidente del Parlamento europeo esprime cordoglio per le vittime dell’uragano Irma e del terremoto in Messico, e dove, nelle occasioni ufficiali, pronuncia versioni più lunghe e più corte della frase che ha messo sul suo sito (“… La nostra vocazione all’apertura, allo scambio, ha radici profonde. La nostra storia comincia sulle isole, in riva al mare, lungo i fiumi. Secoli di scambi, mescolanza di pensiero, dialettica di idee, di arte, di scienza…”). Una frase composta da parole ecumeniche che a Salvini devono fare l’effetto dell’aglio per il vampiro.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.