Janet Yellen, presidente della Federal Reserve, e Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, a Jackson Hole nel Wyoming il 25 agosto scorso (foto Reuters)

Siamo meno globali

Stefano Cingolani

Il mondo degli scambi si è ristretto, per la prima volta dal 1945. Dalla Bce e dalla Fed allarme all’unisono: guai al protezionismo

Isignori delle monete, riuniti come ogni anno a Jackson Hole tra le montagne del Wyoming, questa volta sono rimasti sorpresi: si attendevano di capire se le banche centrali avessero deciso di stampare meno bigliettoni e da quando, ma Janet Yellen e Mario Draghi li hanno spiazzati e all’unisono hanno lanciato un messaggio politico: giù le mani dal libero scambio, guai al protezionismo. L’economista americana e il grand commis italiano si conoscono bene, non sarebbe strano se si fossero sentiti e consultati; in ogni caso la sintonia tra la guida della Federal Reserve e il capo della Banca centrale europea è apparsa singolare. “Gli scambi commerciali aperti sono minacciati – ha ammonito Draghi –. Uno dei temi che l’economia globale si trova ad affrontare è se il trend verso una maggiore apertura dei mercati che ha caratterizzato gli ultimi tre decenni si sta avvicinando alla fine. Le barriere commerciali sono aumentate, passando dal coprire l’1 per cento dei prodotti nel 2000 all’attuale 2,5 per cento”. Yellen ha difeso la riforma di Wall Street, respingendo seccamente l’approccio di Donald Trump e del Congresso americano a maggioranza repubblicana per un allentamento delle regole adottate in risposta alla crisi, le quali – questa la sua tesi di fondo – hanno reso il sistema finanziario sostanzialmente più sicuro senza compromettere né la crescita produttiva né l’erogazione di prestiti e senza introdurre come molti chiedevano limiti sostanziali ai movimenti di capitali.

 

Insomma, la Fed e la Bce non solo hanno sincronizzato la loro politica monetaria, ma parlano lo stesso linguaggio rivolte alle classi dirigenti, ai leader della finanza e dell’industria, ai governi dai quali dipendono i destini del mondo. Osservatori e giornalisti hanno azzardato una semplice spiegazione: ce l’hanno con Donald Trump. Anche questo sembra più che probabile. Eppure, se si trattasse solo di leggere i cinguettii che arrivano dalla Casa Bianca o di ascoltare le rodomontate del presidente, il messaggio non sarebbe così netto e preoccupato. C’è dell’altro dunque, sotto il fumo politichese brucia un fuoco che può diventare devastante. Draghi e la Yellen temono che si affermi una tendenza che già molti chiamato la ritirata della globalizzazione. Per la verità se ne parla da tempo, in fondo da quando la grande crisi finanziaria e la lunga recessione hanno messo in ginocchio i paesi occidentali. Ma adesso i segnali si sono fatti molto concreti e ben più consistenti.

 

Secondo uno studio della Barclays riportato dall’Economist, siamo entrati nella terza fase della economia post 1945: la prima è quella di Bretton Woods caratterizzata da tassi fissi ed è finita negli anni 70, la seconda è cominciata nel 1982 con il big bang finanziario ed è finita nel 2008 (è la globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta), la terza è ancora difficile da definire, ma vede gli scambi mondiali in ritirata per la prima volta dal 1945. In questo senso, il paragone più appropriato è quello con il trentennio che va dal 1914 al 1945, il trentennio di ferro e di fuoco, uno dei peggiori della storia moderna. Facciamo gli scongiuri o lanciamo, come hanno fatto Draghi e la Yellen, un grido d’allarme.

 

Draghi e Yellen non solo hanno sincronizzato la loro politica monetaria, ma parlano lo stesso linguaggio rivolti alle classi dirigenti

Hanno ragione gli economisti inglesi? Il capitale si fa no global con grande scorno di Naomi Klein e Toni Negri e si mangia la coda come il mostro mitologico? Nel 2007 correva libero da un paese all’altro, oggi quella liquidità è ridotta a un terzo (da 12 mila a 4 mila miliardi di dollari) secondo le stime del McKinsey Global Institute. La maggior parte va a investimenti diretti a lungo termine, il che sarebbe di per sé positivo: aver canalizzato quella immensa montagna di denaro liquido in speculazioni immobiliari o finanziarie è stata una delle cause della grande crisi. Ma attenzione, molto spesso più che creare lavoro stabile, vanno a trovare scappatoie fiscali. “Non ditemi che gli investimenti in Lussemburgo servono a costruire fabbriche”, commentano Philip Lane, ex governatore della Banca d’Irlanda, e l’economista Gian Maria Milesi-Ferretti in un recente studio pubblicato dal Fondo monetario internazionale. E’ solo una delle tante distorsioni. La contrazione dei capitali fluttuanti è dovuto in gran parte anche alla ritirata delle banche europee dai mercati finanziari. Inoltre nel 2007 era la Cina ad avere il maggior attivo nella bilancia dei pagamenti, oggi è la Germania che ha un mercato interno ben più piccolo e risparmia, ma non spende.

 

L’inaridirsi del capitale s’accompagna a un rallentamento degli scambi di merci. Lo scorso anno il volume totale è aumentato dell’1,7 per cento soltanto, il livello più basso dalla crisi e il peggiore in 15 anni. Nel suo ultimo rapporto, la Banca dei regolamenti internazionali (detta anche la banca delle banche centrali) si chiede: “La globalizzazione ha raggiunto il suo picco?” e sottolinea che “il ridimensionamento del commercio e dell’apertura finanziaria riflette una volontà di ridurre il rischio”. Anche se invita a interpretare con cautela tutti questi dati, la Bri rileva che alcuni fattori fondamentali contribuiscono alla frenata: la ripresa è più lenta del previsto soprattutto in Europa, la domanda per consumi resta fiacca e così gli investimenti, la Cina ha spostato le sue priorità verso il mercato domestico e i consumi privati, riducendo le immense spese per infrastrutture che avevano attirato grandi investimenti dall’estero.

 

Quello che sta accadendo sul mercato dell’acciaio, dove la Cina è la numero uno mondiale sia per produzione sia per consumi, rivaluta la capacità regolatrice della domanda e dell’offerta. Negli anni scorsi i cinesi hanno accumulato una capacità in eccesso che ora debbono smaltire. Il governo ha già programmato una riduzione di qui al 2020, ma l’instabilità dei prezzi sul mercato mette in dubbio la possibilità di gestire il processo senza sussulti. Ciò apre spazi nuovi ai produttori occidentali. Saranno gli operai cinesi a perdere il lavoro, non più quelli americani o europei. Trump, che voleva proteggere le acciaierie a stelle e strisce con dazi e tariffe, trova che a farlo è la mano invisibile di Adam Smith. Una lezione che i protezionisti vecchi e nuovi rifiutano di imparare.

 

Il 2016 è segnato da una serie di decisioni sciagurate. Trump ha messo fine in modo unilaterale al Tpp (Trans Pacific Partnership) un trattato di libero scambio tra Usa, Canada e Giappone e ha minacciato di uscire dal Nafta (North American Free Trade Agreement), mentre è stato bloccato anche l’accordo tra Usa e Ue (Trans Atlantic Trade and Investment Partnership) non solo per colpa di Trump, ma per i veti incrociati delle lobby e le pressioni sui governi europei a cominciare da quello tedesco. Persino il governo regionale della Vallonia ha stoppato un accordo tra Usa e Ue. I negoziati di Doha per ridurre tasse e tariffe doganali, cominciati nel 2001, sono stati abbandonati, primo fallimento di un round multilaterale dagli anni 30. E poi c’è la Brexit che non si sa come andrà a finire, ma in ogni caso ha innalzato una barriera attraverso la Manica.

 

Non finisce la globalizzazione, si trasformano quella degli anni 80 (il big bang finanziario) e quella degli anni 90 (il free trade)

Perché la ritirata? La scienza triste da sola non può spiegare un fenomeno che è anche sociale, culturale, politico e ideologico. Tanto che Draghi parla di “globalizzazione sostenibile”. “Il consenso sociale per l’apertura dei mercati si è ridotto – dice – per la convinzione che gli effetti collaterali sovrastano i suoi benefici”. Ci sono tre punti di attacco: il primo riguarda la correttezza del libero scambio, il secondo la sicurezza e il terzo l’equità. L’apertura dei mercati è essenziale per aumentare la produttività la quale soltanto può accelerare la crescita dell’economia occidentale infiacchita dalla stagnazione demografica e dai conflitti interni. Ma i mercati resteranno aperti solo se si offrono risposte a queste preoccupazioni di fondo. Il presidente della Bce cita due autori amati a sinistra come il sociologo ungherese Karl Polanyi autore nel 1944 de “La grande trasformazione” e l’economista turco Dani Rodrik che insegna a Princeton e in un suo libro di successo “The Globalization Paradox”, tradotto in Italia da Laterza con il titolo “La globalizzazione intelligente”, ha posto “il trilemma tra iperglobalizzazione, stati nazionali e democrazia”. La sua soluzione, condivisa da Draghi, è aumentare la cooperazione internazionale, perché oggi più che mai nessuno è un’isola. Nel caso della correttezza, soltanto un contesto multilaterale può imporre il rispetto delle regole. Ciò vale ancor più per la sicurezza (si pensi a quella alimentare o sanitaria in genere). Ma nemmeno l’equità, che dipende sia da norme etiche e comportamentali sia dalle politiche fiscali e sociali decise a livello nazionale, può essere assicurata oggi in un solo paese contro tutti gli altri. E’ solo una illusione coltivata soprattutto da una certa retorica estremista sia di destra sia di sinistra, secondo la quale per salvare i diritti e le conquiste dei lavoratori, per tutelare le pensioni o la cassa integrazione, bisogna chiudere le frontiere, anzi occorre farsi gli affari propri.

 

Veniamo così direttamente ai fattori politici. Trump crede che la globalizzazione sia un gioco a somma zero, c’è chi vince e c’è chi perde; Angela Merkel, al contrario, ritiene (lo ha detto anche recentemente) che sia “win-win”, cioè alla fine tutti ci guadagnano. Sarà perché la Germania è il paese occidentale che più e meglio ha saputo trarne vantaggio da tutti i punti di vista: l’industria, i servizi, la modernizzazione dell’intera società (come sottolinea in particolare il McKinsey Global Institute), o sarà perché la Kanzlerin si candida a raccogliere attorno a sé il fronte anti-trumpista moderato. Ma il solco è tracciato.

 

E l’Italia? Il governatore della Banca centrale Ignazio Visco è pessimista: non siamo stati in grado di trarre vantaggio dai grandi cambiamenti degli ultimi decenni. In realtà, una parte del paese ha reagito bene anche alla crisi più grave degli ultimi ottant’anni. E’ l’industria manifatturiera che si è specializzata, ma sono anche alcuni capitalisti che ne hanno tratto profitto, per esempio gli eredi Agnelli: si sono trovati una Fiat domestica sull’orlo del fallimento e adesso controllano un gruppo multinazionale che sembra una cornucopia. Globalizzarsi o sparire, e non sono certo gli unici ad averlo capito, anche se si sono spinti più in là di tutti gli altri fino a cambiare passaporto. Invece, un’altra Italia, quella che ha guardato al proprio ombelico, è rimasta indietro. Non parliamo solo dei lavoratori disoccupati o dei ceti medi impoveriti, ma anche di quella parte dell’establishment economico-politico che non è stato in grado di tenere il passo. Molti hanno mollato, hanno venduto a imprese per lo più straniere, magari intascando lauti compensi, salendo nella scala della ricchezza, ma scomparendo dalla mappa del potere. Il catalogo dei vinti è lungo e spesso doloroso per chi ha perso reddito e lavoro. I media in questi anni non hanno fatto altro che arricchirlo levando alti lai, molto meno hanno raccontato i vincitori.

 

La liquidità che nel 2007 correva libera da un paese all'altro, oggi si è ridotta a un terzo (da 12 mila a 4 mila miliardi di dollari)

Torniamo allora ai fondamentali. Non finisce la globalizzazione tout court, semmai tramontano, o meglio si trasformano, quella degli anni 80 (il big bang finanziario) e quella degli anni 90 (il free trade). Non c’è dubbio che la recente èra del libero scambio ha ridotto le diseguaglianze tra paesi e aree del mondo (magari non abbastanza, ma in modo incomparabile con il passato). I critici però sostengono che ha aumentato le diseguaglianze all’interno dei paesi, soprattutto in quelli occidentali. L’economista serbo Branko Milanovic ha elaborato per la Banca Mondiale una curva a forma di elefante la quale mostra che la globalizzazione ha avvantaggiato i poveri dei paesi asiatici (Cina e lndia soprattutto) i cui redditi sono quasi raddoppiati in media e ha colpito la classe media dei paesi sviluppati, mentre l’élite è balzata sempre più in alto. Il grafico è diventato la bandiera dei nuovi no global e dei populisti. Molti hanno messo in discussione l’accuratezza dei dati e si è aperta una tediosa querelle che ricorda quella che ha circondato il lavoro di Nicolas Piketty.

 

Anche ammesso che l’elefante di Branko dica il vero, la ragione va trovata nel libero scambio o sta altrove? La Banca dei regolamenti internazionali, citando una lunga serie di studi empirici, punta il dito sulla tecnologia. Entrano in campo a questo punto le “innovazioni distruttive” a cominciare dalla rivoluzione digitale. La crisi ha accelerato il processo di riconversione dell’industria e dell’intera economia, spingendo le imprese ad accelerare il salto nell’universo dei dati il cui flusso è aumentato del 45 per cento negli ultimi dieci anni. Ciò non esclude che ci sia bisogno di politiche per sostenere l’impatto sociale di questa grande trasformazione, ma non servono solo misure assistenziali, occorre una gigantesca opera di riqualificazione della forza lavoro. Nell’Italia che piange sul posto fisso e sui giovani disoccupati, si scopre che restano vacanti centinaia di migliaia di posti per mancanza di figure professionali adeguate (tecnici, ingegneri, programmatori) e il fior fiore dell’industria tessile di Biella non trova informatici per digitalizzare gli impianti. Altro che chiudere le frontiere, dobbiamo importare ingegneri indiani come fece la Germania una dozzina di anni fa. Oggi basta usare una qualsiasi piattaforma di e-commerce per orientare consumi e produzione, ma la risposta non viene dai robot, bensì da uomini in grado di compiere scelte razionali. Siamo entrati, dunque, in una nuova fase, quella della “globalizzazione digitale” come la chiama Laura D’Andrea Tyson, ex consigliere di Bill Clinton. I suoi effetti sono meno lineari che in passato, non un gioco a somma zero, ma nemmeno un win-win, piuttosto una pelle di zigrino. E la sarabanda di dati che ci fa girar la testa, può impazzire come avvenne per la moneta ad alto potenziale esplosivo. Ma questa volta guai a chi dice che nessuno lo aveva previsto.

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