Angelino Alfano (foto LaPresse)

Alfano, un tipo italiano

Salvo Toscano

Angelino come in certe commedie di Alberto Sordi. Ritratto del leader senza quid che finora se l’è sempre cavata. Ma ora è alla resa dei conti

"Mi trovai in piena campagna elettorale, e in un attimo capii qual era la mia vera vocazione: altro che iscriversi ai partiti, dovevo fondarne uno!". A tale illuminante conclusione giungeva Rosario Scimoni, l’opportunista sempre pronto a schierarsi dalla parte più conveniente per il proprio tornaconto, frutto della sulfurea penna siciliana di Vitaliano Brancati. Fu quello uno dei più indimenticabili tipi italiani incarnato dalla straordinaria maschera di Alberto Sordi, con la sapiente regia di Luigi Zampa. Il film era “L’arte di arrangiarsi”, titolo che calza a pennello alla movimentata carriera politica di un altro siciliano politicamente spregiudicato, fondatore di partiti e specialista nel cadere sempre, rigorosamente in piedi. Quell’Angelino Alfano che proprio come uno dei personaggi di Sordi interpreta al meglio l’italica vocazione alla sopravvivenza. Camminando da un pezzo sul filo in un equilibrismo perenne, l’ex enfant prodige del centrodestra, già delfino senza quid del berlusconismo, si è barcamenato tra insidie e passi falsi riuscendo nell’impresa di non cadere nel vuoto.

 

Angelino “tipo italiano” proprio come i tanti ritratti dall’Albertone nazionale, abile e accorto nello schivare le trappole e perennemente alle prese con la quotidiana sfida per rimanere a galla. Una sfida che in questi caldissimi giorni estivi vive uno snodo che potrebbe essere cruciale.

 

Cresciuto a pane e Dc, sa come fronteggiare ogni insidia della politica. La sua arte più raffinata è quella di arrangiarsi

Cresciuto a pane e Democrazia cristiana nella sua Agrigento, Angelino ha imparato da giovanissimo il difficile mestiere di districarsi tra le insidie della politica. Tanto da sfoggiare oggi la sopracitata arte di arrangiarsi come forse nessun altro nel panorama politico nazionale. Come il personaggio di Sordi che disinvolto passava dal socialismo al fascismo con apparente cinismo, anche Angelino in questi anni di più o meno larghe s’è mosso tra destra e sinistra, con le sue politiche centriste che hanno garantito poltrone a iosa al suo Nuovo centrodestra, ribattezzato poi Alternativa popolare dopo un cospicuo lasso di tempo trascorso in governi di centrosinistra. Mobile come il personaggio di Sordi, la cui epopea nel film di Zampa finiva male, con il protagonista ridotto a fare il venditore ambulante di lamette da barba.

 

Un finale che forse per Angelino auspicherebbero i suoi potenti nemici. Come Silvio Berlusconi, che non lo vuole più dalle parti del “suo” centrodestra dopo il “tradimento” politico. Ma anche Matteo Renzi, che di recente gli ha riservato un trattamento tutt’altro che amorevole. Oggi Alfano con le truppe rimaste a lui fedeli si trova in mezzo ai due. Corteggiato, anzi “corteggiatissimo” dice lui, dagli emissari siciliani di entrambi. Che vorrebbero il suo partito, dal peso elettorale tutto da dimostrare, nella loro squadra per provare a battere i favoriti Cinque stelle alle Regionali del prossimo autunno.

E Angelino, fiutando l’occasione proprio come il personaggio di un film di Sordi, ha provato a sfruttare la situazione siciliana per la sua complicata partita nazionale. Nella lunga trattativa con l’ex nemico Gianfranco Miccichè, colonnello berlusconiano di Sicilia al lavoro per allargare al massimo la coalizione in vista delle elezioni di novembre, Alfano ha provato a ottenere in cambio dei suoi voti isolani, ritenuti appetibili per quanto difficilmente quantificabili, un’intesa col centrodestra che garantisse a lui e ai suoi la sopravvivenza nella prossima legislatura. Un po’ come Sordi-Oreste Jacovacci che al principio de La Grande Guerra vende con un astuto sotterfugio a Gassman la promessa di essere riformato. Un obiettivo ambizioso, per raggiungere il quale Alfano è tornato a parlare di centrodestra con un entusiasmo ritrovato in un’intervista al Tempo, in cui il ministro degli Esteri individuava la sua Sicilia come “il luogo dove si può dimostrare che insieme si può vincere”.

 

Non è andata bene. Almeno fin qui. Matteo Salvini ha subito alzato le barricate. E Silvio Berlusconi ha fatto due conti su chi poteva portare più voti alla causa del centrodestra alle Politiche regolandosi di conseguenza. Non solo. La trattativa è costata ad Alfano anche una sprezzante reprimenda del suo più stretto alleato, Pierferdinando Casini, che sulle colonne del Corriere della Sera ha bollato come “degradanti” gli incontri di Angelino, riferendosi ai centristi sulla via del ritorno verso il centrodestra come a “questuanti”.

 

Nelle trattative in vista del voto siciliano di novembre si è rivelato una sorta di eroe dei due forni: oggi a destra, domani a sinistra

Un’estate difficile, parafrasando un altro memorabile titolo nella galleria di tipi italiani di Sordi, nella fattispecie quello del partigiano tutto d’un pezzo che per riconquistare la sua bella finisce al soldo del ricco e arrogante industriale. È un colpo di grazia? Chi può dirlo, le sette vite di Angelino sono ormai leggendarie. E i tentativi di celebrare il suo funerale politico fin qui sono tutti andati a vuoto, con buona pace dei suoi detrattori.

 

Ci hanno provato di recente i suoi ex amici. Con il tentativo di riforma elettorale che avrebbe potuto segare le gambe ai centristi al prossimo giro introducendo una spietata soglia di sbarramento. “Se dopo anni che sei stato al governo, hai fatto il ministro di tutto, non riesci a prendere il 5 per cento, è evidente che non possiamo bloccare tutto”, disse sprezzante Matteo Renzi quando sembrava blindato l’accordo con Berlusconi sulla riforma elettorale con il sì dei 5 Stelle. Che invece fecero saltare il tavolo a strettissimo giro di posta, quando tutti già suonavano le campane a morto per il “centrino” di Alfano.

 

“Il Delfino senza quid spiaggiato dal Cavaliere è una sorta di araba fenice”, scriveva in quei giorni, erano i primi di giugno, il Sole 24 ore, chiedendosi se per lui non fosse arrivato l’ultimo giro di giostra. Ma Angelino se la cavò ancora una volta. Sempre verticale come un misirizzi, quei giocattoli un po’ dimenticati dalla base ovoidale e pesante, sempre dritti, al termine di ogni spinta, come l’Ercolino sempre in piedi della Galbani.

 

Due certezze in questi anni: Alfano e la sua poltrona. Sempre al governo, ministro più longevo della Repubblica. “Angelino sta. E mica come d’autunno eccetera, al contrario ottimamente sta e altrettanto ottimamente resta: segnatamente al governo”, scriveva di lui Marco Travaglio qualche mese fa tenendo la contabilità della sua permanenza in sella. Da maggio 2008 a oggi, Angelino è stato ministro per la bellezza di sette anni e mezzo, praticamente sempre con l’esclusione della parentesi del governo Monti dove non entrarono politici. Tra Giustizia, Interni e infine Esteri, lunghissimi anni trascorsi camminando sempre sul filo, con un inconfutabile talento da equilibrista. Anni in cui Alfano ha resistito a tutto. Un paio di mozioni di sfiducia, altre annunciate e mai presentate E questa è la minor spesa. Ci sono stati gli scandali, dalla scivolosa vicenda della Shalabayeva alle vicissitudini del fratello assunto alle Poste con lauto stipendio. E poi gli inciampi dei suoi, i due diversi Rolex che hanno portato alle dimissioni dal governo di Maurizio Lupi prima e Simona Vicari poi, le inchieste sul Cara di Mineo che hanno risucchiato il sottosegretario Giuseppe Castiglione, la condanna in primo grado per corruzione del coordinatore regionale siciliano Francesco Cascio e quella di Roberto Formigoni e via discorrendo. E ancora gli addii al partito, come quello del cofondatore ed ex presidente del Senato Renato Schifani, tornato in Forza Italia. Fino alla recente manovra a tenaglia delle sirene forziste sulle sue truppe in Parlamento, preoccupate per la rielezione.

 

Altri forse sarebbero già finiti al tappeto. Alfano è ancora lì a giocarsi la sua partita fino all’ultimo round. Con una resistenza sorprendente. Come sorprendente fu la sua rapidissima ascesa tra i berlusconiani. Giovanissimo, dopo una sola legislatura nel parlamento regionale siciliano, approdò sulla scena romana conquistando il cuore del Cavaliere. Che lo volle ministro della Giustizia, il più giovane guardasigilli di sempre, in anni assai burrascosi. Un’ascesa inarrestabile la sua, deciso e implacabile dottor Guido Tersilli del Palazzo per tornare ai tipi di Sordi e Zampa, fino all’investitura come segretario del Pdl, battendo la concorrenza di altri legittimi e navigati aspiranti. A stoppare quella travolgente corsa verso la successione al padre politico fu lo stesso Berlusconi che lo affossò un giorno di marzo del 2012 con la celebre frase “gli manca il quid”. Da allora, le cose cominciarono a girare non troppo bene, con la doppia scoppola incassata dai berlusconiani a Palermo prima e alle regionali siciliane poi.

 

L'ha redarguito persino Casini, suo compagno in Ap, il quale ha definito "degradanti" gli incontri con gli emissari di Berlusconi

Nel frattempo, però, erano arrivati i governi politici delle larghe intese, con Enrico Lettta prima e con Matteo Renzi poi. Un rimescolamento generale dopo gli anni del bipolarismo muscolare, con i nemici di un tempo diventati d’improvviso alleati. Uno scenario che riporta alla memoria un’altra fulminante battuta di un Sordi in grandissima forma, all’indomani dell’8 settembre in “Tutti a casa”: «Signor colonnello! Sono il tenente Innocenzi. Accade una cosa incredibile: i tedeschi si sono alleati con gli americani!”.

 

Ed è nel rimescolamento generale che Alfano matura il parricidio politico, passaggio quasi obbligato per gli aspiranti leader, con il distacco dal Pdl e la nascita del Nuovo centrodestra, che di centrodestra col tempo non conserverà nemmeno il nome. Il resto è storia recente. Fino agli ultimi delicatissimi giorni che vedono la Sicilia e le sue alchimie politiche al centro dello scacchiere nazionale.

 

Nella sua Isola, che in passato più di un dispiacere gli ha riservato alle urne, Alfano si gioca tanto. La sua Alternativa popolare conta sette consiglieri regionali e alcune tradizionali roccaforti di consenso. E solletica gli appetiti tanto dei berlusconiani quanto del Pd. Entrambi aspirano ad allargare al centro i confini delle rispettive coalizioni. E per riuscirci mettono nel conto la possibilità di lasciare ai centristi, ossia alfaniani e casiniani (anche questi ultimi in Sicilia conservano ancora qualche consistenza) la candidatura alla presidenza. In mezzo sta Alfano, che dovrà pesarsi dopo un bel pezzo alle urne, dopo avere rinunciato al simbolo alle recenti amministrative palermitane, acquattando i suoi in una lista civica insieme a un evanescente Pd al seguito dell’eterno Leoluca Orlando.

 

Il pendolo di Angelino per un po’ è sembrato più vicino al centrodestra con cui la trattativa è andata avanti per un pezzo in direzione di un listone centrista da mettere su insieme ai cuffariani dell’ex ministro Saverio Romano che si affiancherebbe alla lista di Forza Italia. Forse a sostegno di Nello Musumeci, che tentò la corsa l’altra volta senza successo. O magari di un candidato d’area centrista come l’ex rettore di Palermo Roberto Lagalla o l’eurodeputato alfaniano Giovanni La Via. Ma è col centrosinistra di Rosario Crocetta che gli alfaniani nell’ultimo biennio sono stati al governo, dove ancora siede il tecnico che Ncd mise in giunta, Carlo Vermiglio. Alfano ne annunciò le imminenti dimissioni, segno della rottura con Crocetta, il 16 giugno scorso. Ma Vermiglio ancora lì sta, a riprova del leggendario senso dell’alfaniano per la poltrona.

 

Il Pd siciliano vorrebbe mantenere il patto con i moderati. Ma se i casiniani capeggiati nell’Isola dall’ex ministro Gianpiero D’Alia – tra i papabili candidati alla presidenza di una coalizione di centrosinistra dopo il gran rifiuto di Pietro Grasso – restano ancora più vicini ai dem, gli alfaniani, o almeno una parte di essi, hanno a lungo trattato con il forzista Miccichè. Miracoli della realpolitik, visto che cinque anni fa lo stesso Miccichè di lui diceva a Gian Antonio Stella: “So di essere la persona più odiata da Alfano. Cosa peraltro ricambiata. Ha avuto dei comportamenti da animale. Devo ancora capire che cosa gli ho fatto…”. Alla fine, però, il salvagente per le Politiche lo ha offerto Graziano Delrio e oggi gli alfaniani sembrano più vicini al Pd. Domani chissà.

 

Altri tempi. I prossimi giorni saranno quelli della scelta definitiva per Angelino e i suoi. Coltivando ancora la flebile speranza di strappare qualche garanzia, a destra o a manca, per le prossime Politiche.

 

A novembre infine ci sarà da pesarsi alle urne. E una scoppola in Sicilia potrebbe essere davvero fatale. Il condizionale, per il misirizzi Alfano è d’obbligo. Proprio come il Nando Mericoni di Sordi (al cui eloquio fece pensare il suo famoso “waind” evocato in un incontro con la commissaria europea Malmstroem carpito per sua sfortuna dalle telecamere), che nell’ultima scena di “Un americano a Roma” cancella di suo pugno la parola “fine”, c’è da scommettere che anche il tipo italiano Alfano tenterebbe in quel caso un analogo coup de théâtre.

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